Regia di Alexander Payne vedi scheda film
A.Payne persegue nel suo cinema una linea tendenzialmente classica, e Nebraska per ora rappresenta il capitolo più esplicito del suo lavoro. Si tratta soprattutto dei riferimenti strutturali, dalla linearità dei personaggi al montaggio sequenziale, dall’identificazione dell’oggetto di ricerca della vicenda all’epilogo finale, vero e proprio punto di conquista. La forza di Payne non è tanto nel bilanciare sentimenti in opposizione riuscendo sempre a dosarne l’impatto emotivo, ma nel sovvertire silenziosamente quella scala di valori che anche se messa in crisi da più di mezzo secolo continuano a riproporsi come unico baluardo per sostenere una società in ritirata. Nebraska è il suo protagonista, Woody Grant, lui è il centro fisico del film, attraverso l’intervento del figlio David si prova ad entrare nella sua anima, ottenebrata dall’età avanzata e da una natura scontrosa propensa all’alcolismo. Non è stato contaminato dai grandi ideali di massa degli anni della contestazione, in lui non c’è nulla che incarni una coscienza ribelle, quello che si saprà riguarda un’esistenza normale, senza squilli né ombre avviata verso la decadenza e la fine nel pieno dell’accettazione dei valori immodificabili ed imposti dall’alto. Ad un mondo che corre, che necessita di sempre nuovi giovani-vecchi e viceversa cosa può offrire la società di oggi, forse solo la speranza di una morte dignitosa accompagnata da sogni fasulli. L’illusione, il perpetrarsi del sogno però sopra una certa età diventano una convenzione scomoda, un peso, un costo sociale non sostenibile, chi sconfina verso ciò che non può mai essere stato prima diventa ridicolo, infantile o peggio folle. Nebraska non parla di padri e figli, ma di come un nuovo sguardo sul mondo in disfatta dovrebbe accudirne il passato e prendersene cura, e adottando le giuste misure il posto di comando. Nebraska è parte di un discorso sul tempo, quello che Woody vede assottigliarsi, e che cerca di prolungare nel suo desiderio impossibile, quello immobile del mondo informe che lo circonda, quello prezioso del figlio David, perché indirizzato a costruire un senso che ridetermina l’esistenza negata dal padre fatta di ricordi, memoria, di relazioni. Il denaro perde il suo primato lenitivo e compensatore, la ricchezza vera sta da un’altra parte ma Payne evita di cadere retoricamente in trappole conciliatrici anche verso il suo stesso protagonista. La “cavalcata” finale come un cowboy che si rispetti non risolve che quello che sta all’esterno di Woody, il resto sfuma come nella tradizione classica in una lunga strada da percorrere al termine della quale se va bene non c’è che un paradiso, amaro naturalmente.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta