Regia di Alexander Payne vedi scheda film
Woody Grant, anziano, alcolizzato, ha la fissazione di fuggire da Billings, Montana, per raggiungere Lincoln in Nebraska, allo scopo di intascare il milione di dollari che un ingannevole volantino pubblicitario gli promette. Convince suo figlio David (Will Forte) con il quale ha un rapporto conflittuale a intraprendere il viaggio verso Lincoln per poi fermarsi per una tappa nella propria città natale nella quale ancora vivono i fratelli che non vede da 15 anni.
C’è spesso la dimensione del viaggio nei film di Alexander Payne. Non fa eccezione Nebraska il nuovo , piccolo grande film nel quale il viaggio è metafora di condizione esistenziale. La strada è il grande topos narrativo dell’epica americana, le grandi distanze innervate da strisce d’asfalto uniche testimoni di un’esistenza umana al di là delle terre selvagge. La frontiera, l’orizzonte e il confine non sono solo mete narrative ma conducono ad una riflessione più profonda sull’essere umano messo al confronto con la propria esistenza nella quale la certezza della fine coincide con l’incertezza del tempo in cui la fine si manifesterà. Il senso della vita è contenuto in questi due parametri, il senso del viaggio si sublima tra le due sponde della carreggiata.
Ecco che il percorso nel film di Payne non è fuga quanto ricerca del proprio, intimo, senso esistenziale. Non necessariamente il viaggio verso “la frontiera” è metafora di un futuro , nei film di Payne è più una tregua con il passato e una ricerca di radici.
Così era in Sideways, così è in Nebraska, titolo evocativo di uno stato ficcato profondamente nella pancia dello stato Americano, così che il viaggio di Woody Grant (un eccezionale Bruce Dern) diventa a tutti gli effetti un viaggio nel tempo. Questo aspetto è sostenuto dalla scelta di un bianco e nero molto pulito, evocativo di una condizione di sogno, dimensione di onirismo liquido nel quale Woody vive la propria realtà.
La dimensione del sogno ricompare come elemento aggregante di una comunità disperatamente alla ricerca della propria identità. Una realtà che poggia sul passato, senza aver attecchito radici. Uomini esposti come le loro case senza fondamenta ai capricci del vento.
Radici che Woody inconsapevolmente cerca di salvare per dare un futuro al figlio con viaggio attraverso l’America rurale allo scopo di intascare una vincita farlocca. Il road movie, quindi il movimento, necessità fisica e spirituale di Woody , contrasta con l’immobilismo catatonico del nucleo famigliare dei fratelli e dei loro figli, componenti di quella comunità arresasi intellettualmente al nulla della profonda provincia americana.
Nebraska è un ottimo film, delicato e triste che nella sua semplicità è capace di trattare temi diversi, ognuno però perfettamente coerente rispetto a tutti gli altri. E’ un film sulla fine dell’esistenza e sulla senilità, sul desiderio di riscatto e di espiazione delle colpe. E’ il momento in cui i bilanci di vita si mostrano in tutta la loro brutalità, ed è il momento in cui la mente fugge dentro se stessa come per difendere la ragione dalla consapevolezza della fine.
La fragilità della senilità è accarezzata dolcemente e filmata con pudore, così come il rapporto padre figlio vive di momenti, sguardi. Mai una parola fuori posto.
Ma è anche un viaggio attraverso l’America nascosta. Quella che non fa glamour, che vive di football e di sogno americano infranto. Il sogno che inaspettatamente Woody porta in dote con sé insieme alla bugia della futura vincita del milione di dollari. Woody è uno strano, burbero e beone messia, se è vero che Cristo sceglie gli ultimi come suo portavoce. Porta la speranza, accende il risveglio nelle polverose e abbandonate strade del paese fantasma abitato da fantasmi in carne e ossa. Così la menzogna della vincita si trasforma per gli abitanti della città natale , in una verità che sarebbe troppo doloso contraddire.
L’uomo vuole sognare, ha bisogno di una speranza. Così come Woody ha nel biglietto pubblicitario che furbescamente informa della vincita del milione, un ultimo sogno a cui aggrapparsi dopo aver speso una vita nell’oblio della bottiglia.
Nebraska forse è il miglior film di Payne e sarebbe riduttivo ricondurne il merito solo alla mostruosa prova d’attore di Bruce Dern. Suo è l’anziano personaggio perso nei propri fantasmi, mai accomodante e disilluso. Di Payne c’è mood del film, il passo che accompagna quello incerto di Woody, la geometria della messa in scena, lo sguardo affettuoso per un momento di vita che è anche luogo della mente. Woody è perso, come la sua America. Ma è pieno di risorse come la sua America.
Nebraska è un film d’attesa che dilata i tempi dell’azione e ricorda molto Una storia vera, di David Lynch. E’ americano, quindi capace di mischiare nella narrazione tematiche differenti tra loro, ma con un’anima europea, nel quale i sentimenti viaggiano sottotraccia e la narrazione non è mai didascalica, lasciando allo spettatore il compito di assorbire le emozioni attraverso le immagini.
La tradizione del road movie tipicamente statunitense incontra la sospensione e l’introspezione narrativa tipica del cinema europeo, facendo risaltare questo titolo come uno dei più “autoriali” film americani visti di recente
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