Regia di J.C. Chandor vedi scheda film
Non importa come si chiama, da dove viene, perché sia finito lì né dove sta andando. Importa che nel mezzo dell'Oceano Indiano è solo contro la natura, più matrigna che madre. La sua imbarcazione, che lui conosce a menadito, si è scontrata accidentalmente contro l'enorme container di una nave cargo finito in mare. Il panfilo comincia a imbarcare acqua; l'uomo, oltre settanta primavere sulle spalle, rabbercia il foro come meglio può; i viveri scarseggiano, le tempeste si alternano a giornate di sole che cuociono la pelle. L'imbarcazione si rovescia, l'acqua potabile è sempre meno: non rimane che proseguire su un canotto, portando il portabile. Tutto sembra perduto.
Dopo il magnifico Margin call, Chandor firma un'opera che è l'opposto della precedente: tanto parlata quella, tanto comprensibilmente limitata a un breve incipit e qualche urlo di disperazione questa; tanto fitta la trama lì, tanto all'osso qui; tanti attori nel precedente film mentre qui ce né uno solo. Sono le grandi scommesse del cinema quando la settima arte si fa impresa estrema: vincerle è questione di dosaggio degli ingredienti. Redford è un attore di medio livello che con gli anni ha perso espressività (troppi lifting?) e gli eventi si susseguono senza grandi colpi di scena: abbastanza per riuscire molto meglio di Buried, ma poco rispetto ad altri film di naufraghi, da Cast away a Vita di Pi.
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