Regia di Riccardo Milani vedi scheda film
A parte il tempismo dell’uscita e il particolare contesto politico in cui sguazziamo allegramente in attesa del fallimento, l’elemento più importante di un film tutto sommato poco riuscito come Benvenuto presidente! sta nell’utilizzo degli attori. Tempo fa, Paolo Mereghetti lamentava l’assenza di una nuova leva di caratteristi in grado di sostenere il cinema popolare italiano, la mancanza di maschere come, per esempio, Memmo e Mario Carotenuto o Bice Valori. La questione è rimbalzata recentemente in altri articoli, come a sottolineare che, sì, il fatto sussiste, specie se pensiamo a troppi validissimi caratteristi (razza nobile e pregiata perché rara) ambiziosamente elevati al rango di protagonisti o addirittura registi (tipo Rocco Papaleo o Rolando Ravello).
Come nel coevo ed affine Viva l’Italia di Massimiliano Bruno, questo insolito prodotto degli altrove impegnatissimi Nicola Giuliano e Francesca Cima (gente che a fatto Il divo di Paolo Sorrentino, insomma) ha al suo attivo l’uso funzionale ed opportuno di un gruppo di attori chiamati ad essere semplicemente dei caratteri, dei non protagonisti, e nel panorama italiano dominato dal protagonismo a tutti i costi è già un bel passo avanti. Non è un caso che le cose migliori di questo Benvenuto presidente! vengano da loro, malgrado i ruoli siano scritti male e tagliati con l’accetta. Da Cesare Bocci, Beppe Fiorello e, soprattutto, Massimo Popolizio (da antologia il balletto dance in Transatlantico) che rappresentano i tre leader politici (in realtà poco identificabili) con brio e vivacità, a Omero Antonutti e Remo Girone che si improvvisano commedianti giocando molto sulle espressioni del viso più che sulla verve, fino a Gianni Cavina con l’occhio finto e Piera Degli Esposti supercannata che fanno parte di quella sempre più ristretta famiglia di attori capaci di far tutto senza strafare.
E al di là della bizzarra idea dei poteri forti, in qualche modo comunque legati al cast (Pupi Avati è il regista di riferimento di Cavina, Lina Wertmuller ha non di rado lavorato con Degli Esposti, Gianni Rondolino è il dio del cinema a Torino e Steve Della Casa ne è un allievo fedele nonché capo dell’attivissima Film Commission piemontese), e di qualche ideuzza qua e là, resta poco. Non è colpa dell’artigiano Riccardo Milani, regista che in cinque anni ha affilato gli unici, reali successi televisivi di Raiuno, più che abile ma nemmeno di spiccatissima personalità, non è nemmeno colpa di Claudio Bisio, probabilmente tra i pochissimi a poter sostenere un ruolo da protagonista senza debordare e a collegarsi con la tradizione recitativa nostrana.
I problemi risiedono nella sceneggiatura del più capace autore di commedie popolari che abbiamo oggi in Italia, cioè Fabio Bonifacci, che è partito da un’idea di Nicola Giuliano. I problemi stanno nella voce off invadente che apre la storia, nel facilissimo messaggio populistico (perché il buon senso è oramai pura demagogia), nell’inevitabilità della storia d’amore con l’incantevole Kasia Smutniak (ma non si può fare una commedia senza ficcarci per forza la linea sentimentale?), nella semplicità delle gags quasi elementari (scivolate, cacca sulle scarpe, marijuana sulla pizza), nella difficoltà di gestione dei troppi personaggi scritti poco bene, nella prevedibilità di determinate situazioni. Resta il sapore di un’occasione che probabilmente non poteva essere svolta altrimenti, salvata dal mestiere degli attori (e forse in una commedia popolare va bene anche così) e dalla necessità storica di riderci sopra per continuare a sperare.
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