Regia di Lois Weber vedi scheda film
Ma la verità, in paese, non la vuole nessuno. La sua femminea nudità fa scandalo, presso grandi e piccini, uomini di mondo e di chiesa, borghesi e contadini. E dire che con lei tutto troverebbe una naturale spiegazione, si scioglierebbero i dubbi su chi realmente siamo, e sul perché delle cose che ci accadono. Eppure lei resta una dea malvista ed incompresa. L’asceta Gabriel prova a portarla ai suoi fedeli, ma questi, alla sua vista, si coprono gli occhi e corrono via. L’illuminazione del singolo si scontra con la cecità della massa. Nel film di Lois Weber la dimensione individuale è la nicchia solitaria e trasognata del misticismo, che non chiede altro che la semplice tranquillità di un cortile separato dal mondo. Ad essa si contrappone la coralità come manifestazione della superficialità di giudizio, che si sposa con il pettegolezzo ed il sensazionalismo della stampa popolare. La moda è rappresentata come moto collettivo, che risponde all’unisono alla provocazione, scegliendo la via più facile, quella della fuga oppure quella dell’adesione alla corrente maggioritaria, che si compiace di denigrare i diversi, non mostrando, nei loro confronti, alcuna pietà. La critica sociale è qui affidata ad una visione poetica ed allegorica, immersa nelle suggestioni bucoliche dei boschi delle fate, nei quali l’incarnazione eterea della Verità si aggira come una bellezza inafferrabile. Il suo passaggio non tocca, però, la concreta esistenza degli uomini, i cui delicati equilibri, fondati sulla menzogna, non reggerebbero il confronto con l’immagine contenuta in quello specchio limpido, immune da falsificazioni. Il cinema muto vive di reazioni, che sottolineano il corso degli eventi con la mimica facciale ed i movimenti del corpo: questo modo di narrare fa leva sullo stupore, che traduce l’intrusione della novità in un momento meraviglioso, splendido oppure terribile. L’incursione del fantastico è qui utilizzata in chiave etica, come fenomeno che serve a scuotere le coscienze; funge da antidoto all’indifferenza, a cui oppone la forza tormentata dell’amore devoto e del coraggio di seguire i propri principi fino in fondo, incurante di ciò che gli altri pensano o minacciano di fare. Il ritratto dell’eroe è circondato di un alone da favola, più declinante verso l’ingenuità del romanticismo che verso la durezza dell’enfasi epica. Il tono si mantiene infatti nel solco della dolcezza infantile, quando si parla di lui, il mite sacerdote che si dedica anima e corpo alla missione di donare, alla gente, la luce dell’autenticità, della sincerità, di quel porgersi umile ed incondizionato che non conosce vergogna. Il realismo entra in scena solo negli istanti nei quali i protagonisti sono loro, gli altri, quelli che si comportano secondo gli umori del mondo, seguendo le comuni distrazioni terrene, le preoccupazioni contingenti, le regole corporativistiche dei gruppi di potere. Un lungo piano sequenza - che costituisce il cuore del racconto – li vede tutti in riga, suddivisi secondo le rispettive appartenenze, ognuno con i propri simili e sotto le proprie insegne, ad aspettare il prodigio di fronte al quale quasi tutti, di lì a poco, saranno colti dal panico. Nessuno ha interesse a cambiare l’assetto consolidato, nel quale ognuno si sente forte in quanto inquadrato in un gruppo. Il martire Gabriel sarà vittima del conformismo, dell’immobilismo di comodo, del timore di perdere ciò che si possiede, senza averlo meritato, senza davvero essere sicuri di poterlo considerare proprio. Languido ed incisivo, nitido benché fremente è il linguaggio di quest’opera di un secolo fa, che ci giunge accompagnata dall’intramontabile amarezza della preghiera utopica, della fede irragionevole, e della speranza assurda che, a dispetto di tutto, resiste fino alla morte.
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