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Dallas Buyers Club

Regia di Jean-Marc Vallée vedi scheda film

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La recensione su Dallas Buyers Club

di ROTOTOM
6 stelle

Dallas Buyers Club, storia vera del cowboy Ron Woodroof ammalatosi di AIDS a metà degli anni ‘80 e della sua lotta privata contro le case farmaceutiche, è un film visto centinaia di volte. Non è necessariamente un male, la struttura classica del film che segue pari passo la biografia del personaggio è di facilissima lettura, adagiata soprattutto sull’interpretazione “transformer”  di un Matthew McConaughey ridotto ad un mucchietto di ossa coi baffi per esigenze di aderenza alla realtà.  
Non è una recitazione “asciutta” la sua, a dispetto dell’aspetto, il trionfo di caratterizzazione fatta di mossette, facciotte, gestacci è quanto di più esagitato il cinema classico americano proponga. Ma è questo l’intento, perché toglie fiato a tutto il resto del mondo inquadrato dalla macchina da presa, piegato ossequiosamente a tollerare la performance dell’attore.



Profondo Texas, terra impastata di petrolio, sterco di mucca e ignoranza. Un mix letale nel quale sguazzano i cowboy omofobi e puttanieri di cui fa parte il buon Ron, la cui virilità è esplicitata da rapporti più che occasionali con puledre un po’ sfatte, gli stivaloni e il cappellone. Il contesto se non di degrado ma almeno di profonda mancanza di ogni senso del bello, sia estetico che morale, è la sterminata area sub-urbana fatta di roulottes – case mobili, più elegante – nel quale i bovari vivono la loro maschia vita.



Non è un’esagerazione. Il film mette in risalto questo aspetto con sospetta brutalità, linguaggio trash compreso, in attesa di una promessa di redenzione molto meno  sospesa di quello che dovrebbe, proprio  in virtù di  quell’atavica cultura del cinema classico americano che fa della rivalsa del dannato un formidabile elemento narrativo.



Sbirciando dietro il protagonista si nota il contesto sociale nel quale la storia si dipana. Unico reale motivo di interesse di questo film basico, dalla regia annullata dall’ esigenza di veicolare il suo senso esclusivamente dalla trasformazione a vista dell’ex bel Mattew , scarnificato e soppesato in libbre ad uso e consumo dei tabloid di cinema.
Contesto sociale fatto di profonda ignoranza per quanto riguarda la malattia esplosa proprio negli anni in cui il corpo era il veicolo di piacere del sesso di facilissimo consumo.  Non a caso anche il grande competitor agli Oscar 2014, The wolf of wall street mostra negli stessi anni l’altra faccia della medaglia, quella di riccastri un po’ più fortunati con le malattie ma dotati della stessa goliardica disinvoltura sessuale.
Nel Texas anni ‘80 (ma anche nel resto del mondo) l’epidemia di AIDS riguarda soprattutto la morale. La malattia che più di altre è frutto della “colpa”. “La malattia dei finocchi”. Categoria di persone che nei bar del maschio dopolavoro non è nemmeno contemplata.



Il processo di redenzione di Ron passa attraverso le varie fasi della sceneggiatura classica. Il suo nume tutelare sarà proprio uno dei suoi osteggiati gay , il travestito Rayon, un grandissimo Jared Leto – anch’egli trasformato per il ruolo  -  capace di una sensualità fisica unita ad una potente statura drammatica. Rayon è  destinato al ruolo di co-protagonista che con  l’estremizzazione ironica dei caratteri opposti speculari nel confronto con Ron, alleggerisce il tono del film con siparietti dalla velenosa verve verbale .

La sceneggiatura: Il Mondo Ordinario, il Texas omofobo; la chiamata all’avventura fuori dal focolare, la malattia; il rifiuto alla chiamata, il rifiuto della cura; Incontro con l’amico o mentore, Rayon; superamento della prima soglia, quella della morte. Poi l’incontro con gli avversari, il governo; avvicinamento al cuore della nuova condizione di vita, l’affetto per l’amico; la prova suprema , il processo in questo caso; La ricompensa con la vittoria della sua lotta; Il ritorno e la resurrezione a nuovo uomo con il plauso del nuovo focolare composto dai membri del Dallas Buyers Club.



C’è tutto. Ma proprio tutto mescolato ad una retorica un po’ sguaiata e ricattatoria il giusto. Nell’America dei perdenti destinati a far le cavie per medicinali, i sacrificabili, sono proprio  loro a portare avanti le giuste cause con le giuste motivazioni. Ron da cinico sfruttatore della condizione dei malati – importa farmaci illegali - si trasforma in Don Chisciotte contro i mulini a vento delle istituzioni.
C’è di mezzo il diritto alle cure che l’ufficiale della FDA Richard Barkley (Michael O'Neill) gli osteggia per conto del Governo Federale e che per intelligibilità del tutto egli rappresenta in modo universale facendo lo stronzo.
C’è di mezzo la speranza di vita delle persone malate e l’estirpazione del pregiudizio che ne deriva. 
C’è tutto ma nulla di nuovo, nulla di particolarmente originale neppure come messa in scena di una storia che più ordinaria non si può. Ma del resto è già talmente “importante” il messaggio del film che caricarlo anche di significati estetici ne avrebbe compromesso la leggibilità di massa e quindi la corsa ai premi.

Nota di biasimo per  Jennifer Gardner che fa la dottoressa e assolve al compito di coprire alla meno peggio lo scranno del personaggio femminile, necessaria all’economia del film ma assolutamente fuori dalla grazia di Dio per interpretazione. Si porta appresso quel suo broncetto da ingenua con l’espressione forzatamente intontita per tutto il film. Lancinante.



Dallas Buyers Club rimane un film che confonde il suo valore con il valore della performance attoriale, cerca di essere medio con tutte le proprie forze esplicando l’inesplicabile, furbastro nel mettere in scena un tema scomodo senza essere ne’ visivamente ne’ visceralmente coinvolgente. Oltretutto in Italia si sente doppiato.
Se il film scontornato da Mattew McConaughey non pesa e il bravo attore lo sentiamo doppiato, stiamo valutando un film per il suo restante 25%. La storia.
E’ solo una buona storia ed essendo una storia vera, neppure la storia stessa è merito del film.

 

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