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Dallas Buyers Club

Regia di Jean-Marc Vallée vedi scheda film

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La recensione su Dallas Buyers Club

di Kurtisonic
8 stelle

Un tema così scabrosamente rimosso dalle prime pagine dei media come la diffusione del hiv, richiederebbe davanti alla visione di un film che parla di questa piaga, un posizionamento critico imparziale, una “giusta distanza “ che distingua nettamente la realtà che vogliamo vedere (cioè una finzione, un reale dimensionato ad hoc) e il prodotto cinematografico in sé, pur se come in questo caso tradotto da una storia vera. Lo premetto perché non mi piacciono gli schieramenti ideologici per partito preso, le posizioni pseudo scientifiche avvalorate dall’emotività del momento o da competenze proprie, l’opportunismo perbenista del mondo hollywoodiano che sembrava non aspettare altro che prostrarsi davanti ad una storia del genere, (cosa già avvenuta con Philadelphia, e in Europa in tono microscopico con Notti selvagge) come se il cinema avesse l’obbligo di caricarsi sulle spalle la cecità e l’indifferenza della società intera e pagarne i costi. Detto questo, D.B.C. documenta la fase finale della vita di Ron Woodroof, contagiato dal morbo, rozzo e volgare cowboy moderno, biscazziere ed elettricista a tempo perso. La forza del racconto sta tutta nell’abilità del regista Jean Marc Vallèe, che nonostante caratterizzi (grazie anche al momento magico che l’attore M.Mc Conaughey sta vivendo) il personaggio di Ron in maniera esemplare, riesce ad imporre prima di tutto l’osservazione sugli eventi, senza che l’emotività e il dolore prevalgano in modo da far giungere lo spettatore a posizioni definitive e a dir poco affrettate. Le emozioni autentiche le fa vivere a Rayon, omosessuale, travestito, compagno di sventura di Ron. A lui è delegata la parte più scenografica della storia, a compensazione parziale dell’acidità del personaggio di Ron, che dapprima ricorre ai farmaci alternativi per disperazione, poi quando prende Rayon come socio in affari, non si chiarirà mai fortunatamente fino in fondo se il comportamento del cowboy omofobo è dettato dalla voglia di aiutare gli altri o di farci soldi senza troppi scrupoli. Del resto la moralità dove si troverebbe? Nello sperimentalismo prezzolato della medicina ufficiale, nei tentativi disperati di medici impotenti che comunque ottengono denaro anche per curare altri pazienti, nell’opportunismo sciamanico di miracolosi unguenti? Ron Woodrof possiede la sola certezza fondata che si possa avere, sa che prima o poi morirà e che ogni giorno la vita gli deve sputare fuori qualcosa, si tratti dell’impressione di far stare meglio delle persone, di stringere fra le mani dei soldi, una birra, una ragazza, una scommessa vinta rischiando. Chi vuole giudichi, gli altri assistano al percorso di trasformazione del personaggio, che in questo caso non c’è, Ron rivisita quello che ha già dentro di sé, lo vive, lo sente, e si rivela per ciò che è veramente. Un uomo come tanti, che aspetta il suo momento. Come tutti, malati e non, e opportunamente la regia mette sempre fuori scena l’accadimento finale, rigorosamente in linea con tutta la documentazione della vicenda che non richiede pietismi inutili o momenti melodrammatici.    
“…Gli anni passano e tutte le cose e le persone vengono rimpiazzate. Ma questo è pur vero, non mi è mai piaciuto lavorare. La mia aspirazione è stata sempre di essere inconcludente….” (R.Carver)

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