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Dallas Buyers Club

Regia di Jean-Marc Vallée vedi scheda film

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La recensione su Dallas Buyers Club

di cheftony
6 stelle

“È risultato positivo...all'HIV. Signor Woodroof, riteniamo che lei abbia ancora all'incirca...trenta giorni di vita.”

Texas, luglio 1985: Ron Woodroof (Matthew McConaughey) è un baffuto elettricista amante del rodeo, rude, godereccio e disgustosamente omofobo.
Con tutta probabilità a causa di un rapporto non protetto, Ron ha contratto l'HIV e sviluppato l'AIDS, la terribile malattia tanto sottaciuta in quegli anni e di cui stava per morire il celebre attore, da lui vituperato con un “cocksucker”, Rock Hudson. Già, anche una volta venuto alla ribalta il caso di Hudson, l'AIDS restava “la malattia dei froci e dei drogati”.
Sulle prime Ron reagisce con strafottenza, ma quando i suoi polmoni corrosi invocano pietà comincia a documentarsi e chiede di far parte della sperimentazione del farmaco antiretrovirale AZT (azidotimidina), l'unico farmaco anti-HIV esistente al momento e ancora in fase di sperimentazione clinica.
Respinto nonostante il dispiacere dell'amorevole dottoressa Eve Saks (Jennifer Garner), dapprima riesce a procurarsi AZT illegalmente, poi si reca in Messico da un certo dottor Vass (Griffin Dunne), dal quale viene curato con medicine alternative non approvate negli USA e meno tossiche e costose dell'azidotimidina.
Ron fa ritorno a Dallas con chili e chili di medicine e vi fonda, insieme al travestito tossicodipendente Rayon (Jared Leto) ricoverato con lui poco tempo prima, il Dallas Buyers Club: si tratta di un'associazione con una quota d'iscrizione di 400 dollari presso cui rifornirsi dei medicinali non approvati dalla FDA (Food and Drug Administration).
La malattia di Woodroof sembra rallentare il passo, tanto che Ron tiene duro per ben più dei trenta giorni diagnosticatigli dalla conta dei livelli ematici di linfociti, ma le difficoltà umane e gestionali sono opprimenti...

Ultima fatica in forte odore di Oscar del regista canadese Jean-Marc Vallée, già noto per l'originale “C.R.A.Z.Y.”, “Dallas Buyers Club” si rifà pesantemente ad una storia vera grazie alla sceneggiatura degli esordienti Craig Borten e Melisa Wallack, che scrissero tutto più di vent'anni fa intervistando anche il vero Ron Woodroof.
Vallée non rinuncia al tocco autoriale ma cerca al contempo di non essere invadente, osservando lui stesso il film per larghi tratti da fuori, come se fosse una docu-fiction. McConaughey smette i panni del bellone insipido, dimagrisce di 25 chili e offre una prova recitativa sinceramente eccezionale e sentita, ben assistito dai comprimari Jennifer Garner, Steve Zahn, Denis O'Hare, Griffin Dunne e soprattutto da un bravissimo Jared Leto, sempre più a suo agio in ruoli borderline, anche se il suo personaggio non assume mai stratificazioni complesse, purtroppo.
Pure la “redenzione” di Woodroof e la successiva messa in società appaiono troppo sbrigative, prive di una gradualità che avrebbe giovato ai protagonisti, pieni di trasporto ma quasi superficiali, forse anche per colpa di una storia così complicata e pregnante da esser tosta da comprimere in due ore di pellicola.

[In­serto spocchioso: l'AIDS è stata ed è tuttora una piaga mondiale, su cui è necessario non smettere mai di fare informazione, prevenzione e ricerca, visto che l'HIV è un retrovirus straordinariamente “versatile”, capace di sviluppare resistenza al trattamento farmacologico e durissimo da far recedere.
Dagli anni '90 ad oggi sono state sintetizzate nuove molecole, la ricerca e le case farmaceutiche hanno fatto spese e passi da gigante e oggigiorno la terapia antiretrovirale base consiste di un mix di farmaci, fra i quali è tuttora presente ed utile l'AZT, smerdato nel film ma in realtà efficace nel rallentare la retrotrascrizione da parte dell'HIV, seppur con effetti citotossici tali da indurre anemia sul lungo periodo e in dosi massicce.
Il Peptide T recuperato in Messico e tanto decantato da “Dallas Buyers Club” non è mai entrato in terapia, invece.]

Ma quello che veramente non va in “Dallas Buyers Club” è la terribile indecisione nel prendere una direzione definita che poi all'improvviso risulterà essere quella più banale: per più di un'ora Woodroof non è né eroe né antieroe, bensì un comune stronzo irresponsabile e disinformato che si ritrova di colpo in una battaglia con la salute che vale una vita e la affronta assumendo pillole ignorandone la posologia e accompagnandole ad alcol e cocaina. Poi, quasi di colpo in seguito a fugaci indizi, la sua storia diventa (giustamente) importante per l'acquisizione di una maggior presa di coscienza da parte della società americana e del mondo e per l'adozione di norme più flessibili, mentre la FDA e le aziende farmaceutiche passano un po' per gli speculatori bastardi di turno, come al solito, mettendo in secondo piano la norma che consentiva ai malati terminali di procurarsi farmaci non autorizzati per uso personale fino ai 90 giorni di somministrazione prescritta. Per non parlare della sacrosanta necessità di portare a termine la sperimentazione pre-clinica e clinica prima di azzardarsi a introdurre in commercio una sostanza potenzialmente pericolosa.
Indurre a credere che “loro”, quelli delle ditte farmaceutiche, vogliano semplicemente avvelenare di proposito la popolazione è quanto di più insensato e offensivo si possa fare. Non fatelo, per cortesia: è superficiale e complottista.

Ogni storia vera sul grande schermo rischia di essere un po' romanzata, è vero, magari anche solo semplificata; ma perché semplificare una questione tanto delicata ricorrendo a qualche inesattezza che sa un po' di scappatoia?
È un peccato, anche perché Vallée, attraverso artifici registici e di narrazione, evita scene madri lacrimevoli, ma con questa “scelta” finisce con l'indirizzare lo spettatore verso la fazione con cui è più facile condividere una carica empatica. È un film di qualità visiva e complessiva ottima, ma anche un po' troppo piacione. Lo ammetto: se fosse stato “solo” un film su un essere umano sconvolto dall'AIDS al punto da rivedere ogni sua convinzione in un estremo tentativo di aggrapparsi alla vita, senza l'aggiunta delle piccole sfide autocompiaciute con un'autorità dipinta come totalmente insensibile, “Dallas Buyers Club” avrebbe potuto essere qualcosa di immenso, sui livelli di “Philadelphia” se non oltre.
Davvero.
Avrebbe potuto.

*** e ½

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Ultimi commenti

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  2. Utente rimosso (bufera)
    di Utente rimosso (bufera)

    @cheftony.Grazie per esserti sentito di puntualizzare con molta obiettività alcune inesattezze o meglio lacune, per mancanza di documenti( vedi le cure alternative di cui non esiste traccia che le nomini o ne spieghi la composizione).Questo film è abbastanza coinvolgente ad una prima visione, più superficiale: i problemi vengono ad una seconda visione più approfondita. in cui il disegno del regista appare più approssimativo e confuso, pur avendo dichiarato di voler far luce su ciò che accadde negli anni 80 . L''effetto cinematografico resta , ma di che si tratti non si afferra più bene (docu o biopic o tutti e due ma a tirar via...)Come dici tu se solo avesse focalizzato sulla storia di un povero individuo,con tutte le pecche che vuoi ,ma non stiamo qui a fare moralismi, si imbatte in una sentenza di morte a breve termine per una malatti appena conosciuta su cui esisteva una inevitabile confusione, non per malafede ma per motivi etici e pratici, sarebbe stato meglio.Ma l'opera è di Jean-Marc Valèe, qui ci occupiamo di cinema e penso che anche se difficile per certuni ci dovrebbe limitare a commenti sul film e non sforare in invettive sulle industrie ladre che per soldi uccidono,o camici bianchi che sono indossati da gente senza scrupoli,o descrivere i malati in modo pittorescamente crudele, per colpa degli altri ... questo non mi è proprio piaciuto, non si tratta di libertà di opinione ma una forma d ipopulismo inutile perchè la storia è degli anni 80 e le cose sono molto cambiate. Complimenti e grazie!

  3. cheftony
    di cheftony

    @Bufera: Ah, Vallée ha dichiarato questo? Non mi stupisce, l'intento è meritevole e il risultato non è affatto malvagio. Ho letto e apprezzato la tua bella opinione sia "ritoccata" nella seconda parte che nella prima versione, ma ti dirò che il film, alla fine della fiera, non è spiccatamente populista e manicheo: ha solo il difetto di non osare, di prendere una via già battuta quotidianamente dai media, di indorare la pillola (tanto per restare in tema) allo spettatore mostrandogli dei protagonisti freak da compatire e un'autorità poco comprensiva. La mia critica non significa che queste situazioni non si siano verificate, in effetti. Voglio solo dire che speravo si tenesse lontano dal banale, dal pericolo di innescare un passaggio mentale dal caso singolo al generale, visto che l'immenso potenziale in gioco poteva consentire a Vallée di scavare più a fondo nelle psicologie. Nella mia opinione non intendo affatto distruggere "Dallas Buyers Club": invito solo a non generalizzare e a puntualizzare i ruoli meno apprezzabili dallo spettatore medio. Per esempio, il dottore interpretato da Denis O'Hare (quello che dà il triste annuncio della malattia a Woodroof) è dipinto come un pezzo di merda, un esecutore di ordini al soldo delle aziende: ma è un medico, è responsabile della salute dei propri pazienti e non può correre rischi fuori dalle sue competenze. La dottoressa interpretata dalla Gardner, invece, è il suo esatto opposto. Contrapposizione troppo netta, troppo semplicistica, troppo dalla parte del sofferente. Grazie a te!

  4. amandagriss
    di amandagriss

    grazie cheftony per la bella risposta -bellissimo il passaggio della freccetta :))- comunque il personaggio di MMC per quanto testa di cazzo e odiosissimo nella sua ignoranza e omofobia ha un senso morale, vedi per esempio quando l'operaio clandestino resta incastrato con la gamba sotto un pilastro e lui senza battere ciglio dice al capo di chiamare un'ambulanza, o quando regala al suo amico poliziotto la proteina per la demenza, o quando trova surrogati sessuali e non va fino in fondo con quella donna nuda davanti a lui (e fa di nuovo sesso con un'altra malata di aids), poteva non farlo e fregarsene (come hanno fatto tanti) e invece ha desistito, e non credo sinceramente per un'esigenza di copione ruffiano, è come se questo suo scoprirsi malato abbia rivelato la parte buona, responsabile, tenace combattiva che c'era in lui, poteva ingaggiare questa battaglia da solo e non coinvolgere nessuno ma ha deciso di dividere la sua scoperta di una possibilità migliore di mantenersi dignitosamente in vita con gli altri come lui. Volevo poi aggiungere che nella sua semplificazione di caratteri e situazione -efficacissimi cinematograficamente- il film ha il merito di non raccontare tutto in modo didascalico, lascia alle immagini parlare, brevi momenti che magari possono anche non andare a segno, mi spiego: verso la fine del film lui beve una birra direttamente dalla bottiglia e poi la offre alla dottoressa che l'accetta e beve dalla stessa bottiglia. Il film ci dice che c'è stata un' evoluzione, un cambiamento rispetto agli inizi in cui addirittura si portavano le mascherine per paura del contagio. Ultima cosa, credimi, ci sono dei dottori che sono dei veri e propri pezzi di merda, forse una esigua minoranza? ebbene quell'esigua minoranza ho avuto il dispiacere di conoscere.....un saluto :)

  5. amandagriss
    di amandagriss

    @Snaporaz, grazie, infatti alla fine -ma proprio quando ero alla frutta- ho incontrato (per pietà divina?) un medico guarda caso collega-amico-compagno di studi del pezzo di merda prima della lista che mi ha aiutata veramente, confermandomi indirettamente quanto costui fosse un abominevole pezzo di merda, ciao

  6. cheftony
    di cheftony

    @Snaporaz: sai che di quell'avvenimento del film, a posteriori, ho apprezzato il fatto di aver lasciato la morte fuori campo? È proprio quello a cui mi riferivo nell'opinione con "evita scene madri lacrimevoli", però questo non toglie che quella scena di ribellione di Woodroof mi sia rimasta indigesta e sia un ottimo esempio della banalizzazione di cui si sta a lungo e piacevolmente discutendo: Vallée e la sceneggiatura stroncano il protagonista in fase d'impostazione e poi lo tramutano troppo frettolosamente in un paladino per cui non nascondono di parteggiare un po', facendo fare ad un onesto medico la figura del crudele professionista, incapace pure di difendere la posizione propria e della categoria sanitaria tutta di fronte a quell'incursione estemporanea e rabbiosa. Ok dare una testimonianza di quanto l'AIDS fosse ancora un mistero da risolvere negli anni '80, ma proprio questo tipo di scene lascia pensare che la ricostruzione sia più compassionevole e semplificata che fedele al fenomeno nella sua complessità. Quello che per me è il difetto principale di un altrimento bel(lissimo) film è anche quello che gli farà guadagnare qualche Oscar...

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