Regia di Fernando Di Leo vedi scheda film
Primo piano di un telefono che squilla. A rispondere è Guido Mauri (Claudio Cassinelli) mentre all’altro capo il suo boss, Rizzo (Martin Balsam), gli comunica via libera: procedere con il colpo. Ma una soffiata fa esplodere il pentolone e Guido Mauri ci rimette cinque anni della sua vita. Neanche cinque minuti e siamo già nel cuore pulsante dell’opera, di quei “Diamanti sporchi di sangue” che inizialmente avrebbe dovuto intitolarsi (come da sceneggiatura) “Roma calibro 9”. E infatti del modello originario “Milano calibro 9”, Diamanti conserva una ideale continuità nei caratteri e nell’ossatura del plot, continuità ribadita dalla scelta di affidare ancora una volta alla corruttrice bellezza di Barbara Bouchet il ruolo della femme fatale (in questo caso non troppo), che da spigolosa dark lady in involucro settantesco nel capolavoro del ’72 è qui rivisitata attraverso lenti che ne disinnescano la carica di ambiguità: regina all’apparenza, ma in realtà pedina di un gioco più ampio delle sue perfide intenzioni. Dove Diamanti assume un suo DNA e peso specifico è nel ribaltamento degli aspetti topici e dei “luoghi” chiave che in Calibro 9 si sviluppavano secondo una progressione degli eventi incontrovertibile e fatale, il cui punto di arrivo si materializzava in un epilogo “già scritto” e chiamato in causa sin dalle prime inquadrature, ma non per questa ragione meno dissanguante e crudele. La fotografia, in sostanza, di un mondo disperato e nichilista. Nella puntata romana, quel che risalta e dona senso e spessore, in misura diversa dal classico cui si fa riferimento, è la presenza di un prontuario etico e morale che guida le (re)azioni dei protagonisti, tipico di molti apologhi criminali (Melville) ma fino a quel momento quasi del tutto assente nelle storie e negli ambienti raccontati da Di Leo, ambienti che lo stesso autore conosceva come il salotto di casa sua. Tale novità aiuta a vedere Diamanti sporchi di sangue come un “noir ideologico”, nuovo appuntamento nel cinema di Fernando Di Leo che con la Trilogia del milieu sembrava avesse detto tutto quello che c’era da dire a proposito del genere. Contraltare di questo schema comportamentale malavitoso è Tony, nuovo braccio destro di Rizzo cui un monumentale e istrionico Pier Paolo Capponi presta la sua nervosa fisicità, personaggio dileiano come pochi e che come pochi riesce a imprimere nelle sequenze che lo riguardano un marchio di (in)sana e gratuita cattiveria. Resta tuttora ben ancorato nella memoria cinefila l’epico e interminabile corpo a corpo tra lo stesso Capponi e Cassinelli (esattamente dieci anni prima che ce lo mostrasse Carpenter nel suo “They Lives”), magistralmente orchestrato da un sapiente uso della macchina a mano costantemente incollata ai due contendenti. Paradossalmente, o forse proprio a causa di questa inversione di parametri, Diamanti sporchi di sangue si rivela essere opera estremamente cupa e notturna, in qualche modo espressione di quel canto del cigno che di lì a pochi anni avrebbe decretato la fine del noir come genere di consumo, ma al tempo stesso film vibrante e denso, pagina importante nella storia del cinema di genere italiano.
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