Regia di Stephen Dwoskin vedi scheda film
L’attesa è infinita. Il silenzio è assoluto. Il senso è assente. Ognuno riempie come può il vuoto di un’esistenza che è avanzata oltre il limite del futuro. La vecchiaia è fuori dal tempo. È lontana dalla realtà, da cui la separa un vetro impenetrabile, che non lascia passare i rumori. Gli anziani parlano, ma non li possiamo sentire. Le cose che dicono non ci appartengono, sono troppo distanti dall’oggi, parlano di un passato sconosciuto e forse ricordato male, oppure di un domani che è solo immaginario, e magari un po’ folle. La loro casa è una prigione in cui valgono regole speciali, a cui bisogna obbedire anche se non se ne ha nessuna voglia, anche se sembra impossibile vivere in quella maniera. Le mani vanno per conto loro, non rispondono più ai comandi. E la mente, a sua volta, chissà dov’è diretta, e se veramente si muove. Stephen Dwoskin, documentarista del ritratto umano, dedica questo suo film ad un lungo giro di giostra intorno a ciò che saremo, e che rimarrà per sempre misterioso: non siamo in grado di capirlo adesso, e, quando ci troveremo in quel luogo, non saremo abbastanza lucidi per renderci conto della situazione. L’età è la misura di una lunghezza percorsa, che segna un divario incolmabile tra chi è ancora in cammino e chi è quasi arrivato. Vista da qui, la prossimità del traguardo appare come una condizione sospesa, che precede il momento finale senza davvero anticiparlo, e anzi eludendolo, a suon di drammaticità repressa ed allegria recitata. I suoi personaggi sono interpreti di uno scherzo grottesco, che li anima solo per rimodellarne le espressioni e i gesti, fino a renderli simili a quelli di una volta, solo più pesanti, lenti, marcati, contorti. A rispondere al nostro sguardo curioso è una complessità muta, del tutto indecifrabile, ma troppo ricca di tracce visibili, articolate e mutevoli, per essere priva significato. Quei corpi e quei volti così cripticamente arabescati non possono comunicarci nulla di comprensibile, eppure non si stancano di trasmetterci le loro ermetiche suggestioni, improntate al vibrante minimalismo di chi stende, sul dipinto del mondo, le ultime, leggere pennellate di rifinitura. Per alcuni, sono tratti netti ed isolati, per altri sono sfumature d’ombra che si mescolano con le tinte vivaci del giorno: il tramonto si affronta da soli, chiusi negli stretti confini di ciò che resta dell’essere, oppure in compagnia, lasciandosi lambire dal calore di chi è ancora nel pieno delle forze, delle speranze, in preda alle benefiche illusioni di un orizzonte illimitato. Ma, per tutti, la prospettiva è quella di un minuscolo angolo acuto che ritaglia, sul paesaggio, un piccolo e scomodo spicchio di spazio vitale. Poco più ampio di un’inquadratura. Molto più profondo del nostro campo visivo.
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