Regia di Ted Post vedi scheda film
Harry Callahan ritorna. Alla regia Ted Post, lo stesso de “Impiccalo Più in alto”, e alla sceneggiatura niente di meno che John Milius e Micheal Cimino, che l’anno seguente ripeterà la collaborazione con Eastwood con “Una Calibro 20 per lo Specialista”. In questo Callahan 2, l’ispettore dai metodi poco ortossi, rifilato all’urbanistica, rientra nella omicidi per far luce su delle morti misteriose: una serie di criminali, vera e propria feccia e quantaltro, vengono assassinati, o meglio giustiziati per le strade di San Francisco. I sospetti dell’ispettore più temuto della città cadono su un suo vecchio amico con grossi problemi di equilibrio psichico, ma poi viene alla luce una realtà più sconcertante che offusca il metro di giudizio.
Accusato nientemeno che di fascismo, l’Harry Callahan di Clint Eastwood, come il suo precedente creatore Don Siegel, s’era visto sbricciolare sotto gli occhi tutta l’intenzione sovversiva e poco ideologica del primo capitolo. Nel film di Ted Post si corre più o meno ai ripari. Callahan è più giudizievole, ma ugualmente insubordinato. Ma mentre nel primo capitolo l’elemento sovversivo invadeva sia il contenuto che la forma, in “Magnum Force”, titolo originale, la sovversione lascia il passo ad una polemica più legittima, più “democratica” rispetto all’intenzione tutta “repubblicana” degli spietati vigilantes capitanati da David Soul, l’Hutch di “Starsky & Hutch”. In più, in “Dirty Harry”, il disfarsi del distintivo della polizia con cui si chiudeva il film era un chiaro segnale di disobbedienza civile, di totale sfiducia e rifiuto delle istituzioni così come il potere politico le aveva concepite e costruite. In questo secondo episodio, invece, Callahan mette sì in chiaro che fa quello che vuole, a modo suo, e che questo sistema gli fa schifo, ma sottolinea che fino a quando non si troverà una soluzione migliore a tutta questa merda, lui resterà fedele a questa legge e a questa giustizia. Ecco che la sovversione, la rabbia nichilista, lo sprezzo antagonistico delle forme dominanti di potere, chiare e ben individuabili nel primo episodio, vengono ridimensionate da una sceneggiatura che preferisce il risvolto action del film, con molti inseguimenti nel finale, e un’introspezione maggiore al personaggio, più “democratizzato” del precedente. Ha un compagno di pattuglia di colore con cui è più fraterno che con il compagno messicano precedente, ha una compagnia femminile orientale, e finalmente lo vediamo nel privato della propria casa, con la foto di sua moglie ormai morta, e forse Milius e Cimino ci vengono in contro dando una loro interpretazione al perché gli “interni” dei personaggi di Clint Eastwood siano sempre o mestamente bui o parzialmente in ombra. Infatti la ragazza dagli occhi a mandorla glielo chiederà direttamente perché vive al buio, e il nostro gli risponderà che al buio si incontra la gente migliore, alle volte.
É un episodio inferiore al primo semplicemente perché tutta l’intenzione sovversiva viene ridimensionata senza però togliere spettacolarità al film. Tant’è che le scene d’azione e le sparatorie sono molto secche ed incisive, ed il taglio molto seventy è assolutamente affascinante e mostra tutto il processo risemantico del personaggio in porzioni di sguardo e figurazioni mitiche ugualmente efficaci. É un episodio che può vantare la partecipazione di Hal Holbrook, splendido “oppositive” di Eastwood e il David Soul già citato, davvero in parte, anche se marginale.
Un’unica lamentela: i dialoghi. Molto, troppo telefonati, soprattutto nei raccordi informativi. C’è un momento, nella gara di tiro a segno, durante la prova di combattimento, con le sagome di criminali, civili e poliziotti che saltano fuori ovunque, che l’Ispettore Callahan cilecca in pieno e colpisce proprio un poliziotto. Siamo ad un punto del film in cui Dirty Harry sospetta di un poliziotto, come assassino della feccia di San Francisco. Ecco, dopo lo sbaglio dell’ispettore, un uomo fuori campo dice “Ha sbagliato!”, e Clint Eastwood si gira solamente, con uno sguardo rapace che fa tremare, senza proferire parola. Io, personalmente, gli avrei fatto dire, tra i denti, a labbra quasi serrate: “Non ho sbagliato”.
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