Regia di Gaspar Scheuer vedi scheda film
Mentre fa la barba specchiandosi in una tinozza colma d'acqua, con la calma e la rassegnazione di chi ha accettato un inesorabile destino, un uomo riceve la visita del proprio assassino: segue un breve dialogo, poi un colpo di fucile, sotto gli occhi increduli del figlioletto, che assiste acquattato e inerme dalla stanza accanto. Un bel po' d'anni dopo (attorno alla fine del XIX secolo) quel ragazzino è cresciuto, si chiama Miguel Irusta ed è braccato dagli emissari della legge, costretto a lasciar sola la madre che pure l'avrebbe voluto ancora con sé. Si sposta rigorosamente a piedi, con addosso un poncho, in testa un sombrero, e tra le mani due coltelli, e a chi lo incontra riserva poche parole: non fa domande, ma nemmeno ha voglia di dar risposte, pronto piuttosto per l'ennesimo duello e per un'altra croce da incidere con la lama sul proprio braccio sinistro, per non dimenticare.
El desierto negro è il primo film da regista del tecnico del suono Gaspar Scheuer, e colpisce fin da subito per l'impatto violento della fotografia monocromatica di Jorge Crespo, lugubre minacciosa e scura, in cui le sfumature più livide del grigio si stagliano tra tanto nero profondo e poco bianco sporco, riuscendo a trasformare ogni fotogramma in un'immagine degna dell'Edvard Munch più cupo, con ombre e chiaroscuri penetranti a dare il senso di quell'angoscia e quel male di vivere che dal giorno della morte del padre opprimono Miguel impedendogli di dormire.
A quest'impianto visivo denso ed evocativo, in cui accanto ad un gaucho sui generis e lontano dallo stereotipo il ruolo del coprotagonista spetta al fascino selvatico della pampa argentina, si aggiunge un comparto sonoro suggestivo e silenziosamente assordante - con da una parte i ricchi effetti d'ambiente di Estanislao Sotosca e dall'altra lo score aspro e stratificato di Ezquiel Menalled - che con esso si amalgama alla perfezione fornendo la cifra di un'opera che è prima di tutto un'imperdibile esperienza sensoriale, e la cui resa complessiva è solo parzialmente inficiata da uno script leggero e ai limiti dell'involuzione tenuto in secondo piano dallo stesso autore (che ha candidamente dichiarato di averlo completato in corso d'opera), che spacca il racconto in due cadendo in inverosimilianze evidenti, ma lo fa comunque con la sincerità che deriva dall'urgenza e senza improvvisare false piste inutili, chiedendo allo spettatore, semplicemente, di tenere occhi e orecchie aperti e lasciarsi trasportare. ***½
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