Regia di Tonino De Bernardi vedi scheda film
Peccato. Domani. Per terra. Io l’ho uccisa. Tranquilla. Bagliori nel buio. Saperlo. Misericordia. Inferno. Nessuno, io, da me. Il globo si spacca. Sono le parole d’ordine per entrare in un regno esclusivo, e pieno di mistero. La casa è un rifugio, una prigione, un luogo d’incontri proibiti. Un abisso di depravazione ed un tempio di adorazione. In un mondo multietnico la sua definizione è rimasta immutata, ugualmente sfumata dalle inclinazioni individuali, ma sempre, inesorabilmente, sacra. Questo film sceglie la Parigi degli immigrati africani come centro provvisorio di un cosmo che si muove lento e confuso, con un passo danzante che a volte sembra noncurante, a volte suona disperato. L’umanità va avanti, lungo strade intricate ed ingombre di ostacoli, ed ognuno ha il suo modo di comunicare la propria incertezza. C’è chi vive fuori, vagabondando senza sosta, tenendosi costantemente in contatto telefonico con i luoghi più lontani. C’è chi, invece, non esce mai, ed ha a disposizione soltanto un balcone per piangere e gridare il proprio dolore. Esiste la solitudine al vertice, quella dell’uomo che comanda, e quella strisciante e nascosta della donna abbandonata, sfruttata, smarrita. Il manovratore è maschio, tiene in mano le leve del potere, armeggia con i soldi e con gli strumenti del progresso, perché il suo rapporto con la realtà è sempre indiretto, mediato dai simboli della conquista dello spazio, della memoria, del tempo (il cellulare, la macchina fotografica, il saggio filosofico). Dalla parte opposta troviamo lei, l’incarnazione femminile di un’arte abbracciata alla vita vera, all’amore, alla seduzione, che parla un linguaggio fantasioso e universale. L’obiettivo si sposta continuamente tra le immagini che si esibiscono senza pudore in tutta la loro brutale concretezza (il protettore che dirige un giro internazionale di prostituzione leggendo Il Capitale di Karl Marx) e quelle che, invece, si scoprono appena, restando rannicchiate dentro il calore soffuso di una intimità incantata (una madre che, di sera, con i suoi bambini, attizza il fuoco del caminetto). La fiaba è in cammino, e la sua storia si insinua, a furia di sensi incompiuti, in mezzo alle pieghe di una quotidianità apparentemente banale, però, sotto sotto, carica di una singolare tensione emotiva e morale. Si può essere attori e temere il palcoscenico; oppure ricchi e preoccuparsi degli squilibri economici; lussuriosi ma religiosamente devoti. La paura, in fondo, è quella che ci educa ad interrogarci, a stare calmi, a moderare gli eccessi; in definitiva, ad interrompere la frenesia dell’azione con una sosta dedicata al pensiero. Il cinema assorto di Tonino De Bernardi torna a proporre la sua naturale sconclusionatezza, adorabile perché genuina, magica perché ingenuamente protesa verso l’infinito. Casa dolce casa è un “noir” nel quale la penombra della metropoli chiama a raccolta i dubbi, i peccati, le allusioni, le fughe, i tumulti sussurrati e le rabbie sopite; ancora una volta, l’inquietudine si stempera, sotto le tranquille pennellate con cui l’obiettivo dipinge cose e persone, coprendole con i delicati colori di un rispettoso stupore. Nella paziente fissità della contemplazione, il racconto, a dire il vero, a tratti si stinge e perde la sua forza evocativa. La prolissità è una tentazione a cui non riesce del tutto a sottrarsi; tuttavia il messaggio resta vivido e sincero, come una melodia trascinata e imperfetta, eppure animata dalla voce di una consapevole ed ispirata desolazione interiore.
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