Regia di Marco Bonfanti vedi scheda film
L’ultimo pastore è la storia di 700 pecore nel centro di Milano, una lucida follia d’altri tempi portata avanti attraverso una piacevole sceneggiatura che sembra voler mostrare la macchina da presa come un’intrusa nella vita di Renato, sua moglie e dei loro quattro figli. Nel film, che ripercorre tutte e quattro le stagioni della pastorizia, dalla transumanza fino al ritorno a casa, c’è l’inevitabile riconoscimento della palese discrepanza vigente tra la società contemporanea, i mestieri più antichi e la loro passata esistenza. Questa dissonanza non viene portata avanti nel film attraverso un registro puramente drammaturgico e da compianto funerario, bensì mediante una notevole e originale elaborazione che passa dai toni fiabeschi, romantici e ironici della prima parte a quelli più realistici della seconda e a quelli onirici dell’ultima. La scena in cui il gregge entra in città muovendosi sull’asfalto sotto un cavalcavia è l’emblema del passaggio a un tono prettamente surrealistico, reso ancora più evidente dalla splendida fotografia di Michele D’Attanasio e dalle musiche di Danilo Caposeno. Se nella prima parte della pellicola il gregge era movimento sinuoso, coreografico, all’interno di un locus amoenus, nella seconda si evidenzia come un gruppo affaticato, demoralizzato nell’attraversare gli incroci della periferia milanese. Nella terza, invece, ponendo l’accento sul suo essere massa differente che sbarca nell’indifferente, diviene esercito che “marcia” sulla metropoli.
Si trova una certa somiglianza tra i personaggi “folli” e “tracotanti di Assoluto” del regista Werner Herzog e Renato Zucchelli, così come è geniale il paragone, proposto allo stesso regista durante un festival in Giappone, tra il pastore e il Totoro di Hayao Miyazaki. C’è, infatti, in entrambi la capacità di evidenziare un attaccamento alla natura e alla sua bellezza quasi metafisico, panico e primigenio.
Il film di Bonfanti ha il pregio di portare una ventata di freschezza nel panorama del cinema italiano e consente, soprattutto, di riflettere, senza elucubrare, sui concetti di sogno, passione e vocazione. La serenità del protagonista sembra quella di un saggio epicureo anelante il grado zero della vita mediante un’esistenza nomade, libera e dedita al lavoro: «Mi chiamo Renato Zucchelli, faccio il pastore e questo è il mio mondo».
STUEPENDO.
Il viaggio di Renato Zucchelli, moderno Don Chisciotte, che sfida la metrpoli per regalare sogni, gioia e speranza ai bambini.
Magnifica.
Geniale perché acerba.
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