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Sun Don't Shine

Regia di Amy Seimetz vedi scheda film

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La recensione su Sun Don't Shine

di mck
7 stelle

Amore autofago: due amanti si nutrono del proprio futuro. In sottofondo: eco di sirene grondanti fiamme...

 

Sun Don't Shine”, l'opera prima nel lungometraggio di Amy Seimetz

[attrice -- “the Myth of the American Sleepover” di David Robert Mitchell, “Tiny Furniture” di Lena Dunham, “Alexander the Last” e “Silver Bullets” di Joe Swanberg, “Autoerotic” di Joe Swanberg e Adam Wingard, “A Horrible Way to Die” e “You're Next” di Adam Wingard, “Upstream Colors” di Shane Carruth, “the Reconstruction of William Zero” di Dan Bush, “I Believe in Unicornsdi Leah Meyerhoff, the Killing” (la 3a e 4a stag.), “Alien: Covenant” (la co-pilota dell'astrovave oltre che la pilota della navetta da sbarco) e “Stranger Things” (la zia di Eleven/Jane) -- che fino ad allora aveva diretto solo un paio di cortometraggi ed in seguito dirigerà e scriverà metà degli episodi delle finora 2 stag. di “the Girlfriend Experience”, curandone anche la produzione, oltre ad interpretare un personaggio ricorrente nella 1a annata], 

 

 

da lei scritta, diretta [in pellicola 16mm: ottima fotografia di Jay Keitel, ruolo che ricoprirà anche per “the Girlfriend Experience”, mentre le musiche sono di Ben Lovett (“the Reconstruction of William Zero” e “the Dark Red” di Dan Bush, “American Folk” di David Heinz, “Synchronicity” e “Night Sky” di Jacob Gentry, “the Ritual” di David Bruckner) e il sound design di Ben Huff], co-montata [con David Lowery, il co-editor (col regista, Shane Carruth, qui consulente e co-produttore esecutivo) di “Upstream Color” (di cui Seimetz è, come già ricordato, protagonista) e autore di “St. Nick”, “Ain't Them Bodies Saints”, “A Ghost Story” e “Old Man and the Gun”] e co-prodotta, racconta di due innamorati che scappano, come gl'innamorati han sempre - attraverso declinazioni le più varie, non per forza criminali… - fatto, non "verso cosa", ma "lontano da chi" 

 

 

[da “Sunrise: a Song of Two Humans” a “Bonnie and Clyde”, da “the Getaway” a “Badlands”, da “Days of Heaven” a “Natural Born Killers”, da “Moonrise Kingdom” a “the Free World”, per citare un film recente, di cui “Sun Don't Shine”, uscito quasi un lustro prima, sembra essere una derivazione, uno pseudopodo, una variazione sul tema (col cadavere a spasso coi fuggitivi nel bagagliaio a gonfiarsi sotto il solleone floridense invece che al fresco stabilizzatore nella sala autoptica del coroner), un'altra svolta di strada],

e nella fuga si conoscono meglio di quanto mai s'eran conosciuti prima, e il loro amore si sgretola (con la messa in atto di un'autofagia di futuro) e si consolida (raggiungendo l'acme ed evaporando). Il lieto fine o la sua nemesi dipendono tanto da loro (ovvero dall'Autore) quanto (come sempre) dal caso, e dal punto in cui si decide d'interrompere la narrazione, “conclusa(si)” o no. 

 

 

L'arte, così come molte discipline scientifiche, al contrario, ad esempio, della matematica pura, che poggia tutto il peso dello sforzo d'essere compresa su chi ha concretamente l'intenzione di studiarla, “scoprirla” ed applicarla per poi usufruirne, ha dalla sua qualche basso trucchetto d'alta poesia per farsi se non comprendere, assimilare, capire e padroneggiare, per lo meno ascoltare meglio: dire "il mascara le colava dagli occhi alle gote trasportato dalle lacrime" (oggetto movimentato da A a B per mezzo di C) non è come dire "le limpide e invasive stille salate e cristalline sgorgavano a fiotti dai dotti lacrimali dilatati pescanti dalla cisterna del rimorso dilavando il cupo nerofumo del mascara dalle ciglia e raccogliendolo in un magmatico bacino di tenebra informe che le ricolmava gli occhi di afflizione sino a quando un battito di palpebre ruppe la diga della tensione superficiale di quel serbatoio di catarsi alluvionandole il viso con cineree fiumare di carbone e lasciandole come delle oscur'e fosche strisciate di pneumatici sulle guance": al di là dell'esito finto-poetico più o meno riuscito o respingente – e a prescindere dal fatto che in “Sun Don't Shine” e su Crystal non v'è ombra di mascara (si, però Ingrid lo usa! Hm, ok, d'accordo, questa è un'altra storia...forse) – l'arzigogolo pluri-aggettivato attira l'attenzione e consente di figurarselo, a tradimento ("Non bisogna pensare a un elefante rosa in tutù!": ed ecco che...), quel volto, temporaneamente sfregiato da quel profondo buio emotivo.  

 

 

Così, al contrariopposto, Amy Seimetz tenta di compiere il percorso alchemico inverso, levando quasi ogni causa scatenante (o rendendola talmente palese da renderne nulli gli effetti) che può aver portato alla comprensione e all'assimilazione dell'in medias res in cui ci catapulta, da subito, principiando il film, centellinandone a canonica regola d'arte il rilascio: prosciuga i fatti, riduce i dispositivi, minimizza le sovrastrutture, spoglia i suoi protagonisti dal coagulo di retroterra da cui provengono e che li ha portati sin lì, dove sono ora, in perenne movimento di fuga - così tanto sangue deviato verso il cuore (generoso, egoista, altruista, individualista) da levarne un po' troppo al cervello (costretto, braccato, pungolato, assediato) -, e li riprende mentre passo dopo passo divorano il loro stesso futuro, inesorabilmente, e, senza per questo inondare di aggettivi la narrazione, ricorre alla punteggiatura: ellissi, parentesi, puntini di sospensione. Paradossalmente, l'architettura portante è uno stereotipo vivente, un chimerico animale archetipico così lento e mastodontico che, mentre si muove, se ne può percorrere il perimetro, scontornarne l'andatura e tracciarne il profilo anticipandone le tappe della traiettoria e la meta, se non letterale, metaforica: “Sun Don't Shine”, come già detto, è un film autofago, come i due protagonisti, ed esprime un'estetica delle sensazioni, e in ciò è un film impressionista, e non solo grazie alla scelte di fotografia (la rosy-fingered down e il purple-veiled sunset stemperano la propria materia sulla carnicina epidermide della protagonista e per contrasto nei suoi occhi di pallido e slavato cobalto smeraldino) e alla decisione di girare (impastando la tavolozza pastello in una texture sgranata) in 16mm: non è una qualità del tutto sufficiente all'auto-affermazione (non che ce ne sia bisogno) di un'opera d'arte, ma lo spessore e la profondità sono a carico, e pienamente espressi, dal cast. 

 

 

Su Kate Lyn Sheil, l'attrice protagonista ("Impolex", "the Color Wheel", "Green", "Queen of Earth", "Listen Up Philip", "the GirlFriend Experience", “House of Cards”, “Kate Plays Christine”, "Buster's Mal Heart", “Golden Exits”, “Mountain Rest” “Lost Holyday”), grava l'oneroso fardello del tonnellaggio emotivo - un bagaglio d'imponente responsabilità artistica e un cargo di eterogenea (in quanto indirizzata lungo il binario della semi-autisticità, ma imprevedibile) possibilità attoriale -, gestendo questo compito alla perfezione.
Al suo fianco, Kentucker Audley (“Ain't Them Bodies Saints”, “Queen of Earth”) nei panni di Leo, il di lei compagno di fuga e di (quel che rimane e sarà della loro) vita, Kit Gwin (un'amica / vecchio amore di Leo, in una bella scena di altalenante tensione), e poi due brevi apparizioni ognuno per AJ Bowen (un buon samaritano scrupoloso sino all'egocentrismo) e Mark Reeb (il barcarolo), quest'ultimo anche co-produttore esecutivo.  

 

 

«In quel momento non provavo vergogna o paura, ma solo una specie di “blah”, come quando si entra nella vasca da bagno e tutta quell'acqua ne esce fuori.»

Holly Sargis in "BadLands" di Terrence Malick (1973) 

 

* * * ½ (¾)   

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