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Su Re

Regia di Giovanni Columbu vedi scheda film

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La recensione su Su Re

di Peppe Comune
8 stelle

La passione di Gesù Cristo viene trasportata in Sardegna, sul Supramonte. Si rappresentano le ultime ore della vita di Gesù (Fiorenzo Mattu), dall’ultima cena fino al Calvario della Croce. Passando per il tradimento di Giuda (Antonio Forma), i tentennamenti di Pietro (Luca Todde), la vigliaccheria di Pilato (Paolo Pillonca), il giudizio di Caifa (Tonino Murgia), l’amicizia di Giuseppe di Arimatea (Bruno Petretto) e l’afflizione di Maria (Pietrina Menneas). Si rileggono i Vangeli di Marco, Matteo, Luca e Giovanni. Per mettere in scena stati d’animo diversi che rappresentano modi diversi di riflettere, attualizzandola, la morte gratuita dell’innocenza.  

    

 

“Su Re” di Giovanni Columbu appartiene alla categoria dei film “alieni”, quelli che sanno sin da subito di non poter contare di un’ampia visibilità. Soprattutto perché nascono con l’intento coraggioso di dare libero sfogo alla propria idea di cinema, di voler sperimentare altri linguaggi. Eppure sperimentare è necessario, e Giovanni Columbu lo fa applicando alla messinscena un ricercato rigore filologico (ricordandomi non poco il troppo sottostimato Paolo Benvenuti), facendo pronunciare nella vulgata sarda parole antiche come il mondo, usando facce solcate dalla fatica per dare un senso alle sembianze del mito.

Columbu desacralizza il racconto dei Vangeli per farne il verbo che eternamente riecheggia nel vento la sua voce, sia per attualizzarne la portata mitica rispetto ad ogni forma di marginalità che chiede di essere ascoltata, sia per allinearla al tempo storico che lo ospita instaurando con esso una relazione di tipo sensoriale. Si segue la traccia pasoliniana nel filmare una parabola umanista che fa del Cristo e i suoi discepoli dei figli sofferenti del mondo. Ma piuttosto che seguire la linearità del racconto evangelico che fa leva sulla santa unicità del corpo di Cristo, il film segue la disarticolata umoralità di diversi punti di vista. Il centro  verso cui tutto giunge è sempre la passione della Croce, ma vi ci si arriva per quattro volte diverse, quanti sono i modi in cui ognuno vi dà corso attraverso la sua particolare partecipazione emotiva. Come un “Rashomon” invertito, che di fronte all’evidenza di una verità presenta più fatti per vestirla. Giovanni Columbu monta e smonta la linearità narrativa, rappresentando per quattro volte la passione di Cristo. Ogni volta, Gesù usa parole diverse voce alla suo dolore e diverse sono le reazioni delle persone assiepate sul Golgota. A non cambiare mai sono le conclusioni convergenti. A Columbu interessava far emergere la differenza di suggestioni ricavabili dall’intreccio variegato di immagini e parole, perché diverse sono quelle che si possono ricavare dalla lettura dei quattro Vangeli.

Per stessa ammissione del regista sardo, l’organizzazione della messinscena ha avuto come riferimento pittorico “Salita al Calvario” di Pieter Bruegel. Dal capolavoro del maestro fiammingo vengono mutuati due aspetti. Primo, la decontestualizzazione territoriale della passione di Cristo, il fatto che, pur riferendoci chiaramente ad essa, il quadro pullula di elementi iconografici che appartengono ad un'altra dimensione spazio-temporale. Secondo, così come avviene nell’opera di Bruegel, per quanto ci sia un evento centrale che funge da elemento catalizzatore, l’attenzione di chi guarda è portata ad indirizzarsi verso ogni personaggio del dipinto. Se ne ricava un effetto caleidoscopio che intende rivolgersi indistintamente verso ogni parte che compone il tutto.

Per tal fine, Giovanni Columbu dà molta centralità alle facce che ricalcano l’asperità dei luoghi, ai corpi degli attori, alla dura sonorità della lingua sarda. Il suo Gesù è brutto e sgraziato, decisamente lontano dal bell’aspetto consegnataci dall’iconografia classica. I suoi occhi “spiritati” esprimono una sofferenza molto terrena, così come sofferenti appaiono le prove di questi attori non professionisti (tra cui c’è anche lo scrittore Gavino Ledda), molto bravi e convincenti, che con la loro movenze veraci conferiscono a tutto l’insieme un timbro etnografico che si fa ammirare per la sua sincera naturalezza. Il resto lo fa poi l’ambientazione voluta da Columbu, che alterna accenni claustrofobici a repentine  fughe verso l'esterno   Ai colori trattenuti, ricavati da una fotografia che tende ad opacizzare la luce del sole, contrappone la spazialità rocciosa del Supramonte. Una terra che con la sua natura verginale è fatta palcoscenico ideale di una storia mitica che dall’anno zero continua ad accompagnarsi ai destini incrociati delle vicende umane. Un buon film, che sorprende per il modo pacato con cui fa sperimentazione con il mezzo cinematografico. Da far emergere perché lo merita.      

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