Regia di Giovanni Columbu vedi scheda film
La terra e la lingua, quelle della Sardegna, naturalmente recanti la morte e la vita, lo ieri e l’oggi, sono parte integrante della storia. Cristo si è fermato a Oliena (Sardegna). L’opera seconda, dopo Arcipelaghi (2001), di Giovanni Columbu, è girata nella stessa città, dell’entroterra sarda, dove John Huston, nel 1966, girò alcune immagini de La Bibbia. Terra ricca di sfumature, a partire dai colori arsi e brulli della roccia, intinta al verde di qualche rada macchia mediterranea. Questa terra, in connubio con una lingua dura e gutturale, come quella parlata dagli attori non professionisti, si tratta del dialetto locale, rendono, alla storia più celebre del mondo, la sua sacralità e ritualità. Si tratta della storia della Passione di Cristo, dal tradimento alla sua morte in croce, raccontata secondo una lettura sinottica dei quattro Vangeli, le pagine più belle (anche della letteratura di ogni tempo) di Giovanni, Matteo, Luca e Marco. E’ un cinema fatto di terra, sudore, scavo e arsura, quello che mette in atto Columbu. I suoi luoghi sono simili ai volti, degli uomini e delle donne che li abitano. Brutti da vedersi, straordinariamente belli da mostrarsi. E’ come se Columbu avesse preso gli stessi personaggi, ritratti nelle scene sacre, quelle del Quattrocento di Carlo Crivelli, e gli avesse dato vita. Non è, quindi, tanto sorprendente se poi, scopri che per girare questo film sono stati coinvolti persino gli uomini e le donne del centro di salute mentale di Cagliari. E’ ovvio il rimando al Vangelo secondo Matteo di Pasolini, sebbene Columbu appare molto più rude. E’ come se il suo film avesse quella forza primigenia che accomuna l’aridità del paesaggio a quella dei cuori di tutti i protagonisti, i cui volti appaiono sempre ostici e a tratti spigolosi. Passa tanta linfa vitale, nelle rughe, nei solchi e in quel che si riesce a permeare di quella brulla terra. Tuttavia, non c’è possibilità di vita, se la storia del Salvatore inizia e finisce nel sepolcro dove a piangere resta, dall’inizio alla fine, una donna che piange il corpo di suo figlio morto. E’ Gesù, il Cristo, gonfio, sofferente e livido per le percosse. Così carnalmente ancorato alle brutture terrene, da avere quasi la sensazione che anche per lui sarà preclusa la via al cielo. E noi, come spettatori, si è lì a guardare, impotenti, come colui a cui hanno trafitto il costato con la lancia. Visto in soggettiva è come un morire con lui. Senza possibilità alcuna di ascendere in un altrove, che non fosse il barbaro mondo degli umani, come già prima di Columbu, registi come Bresson e lo stesso Pasolini ci avevano allontanato dall’idea della salvezza, per mezzo di un dio divo e divino. La Passione di Columbu sta tutta nell’arte del cinema.
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