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Punto zero

Regia di Richard C. Sarafian vedi scheda film

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La recensione su Punto zero

di scapigliato
8 stelle

La sfida all'ordine costituito è sempre la più bella. Fin dall'inizio, nel modo in cui Sarafian apre il film, s'intuisce subito il nobile intento di mitizzazione che il regista vuole dare al suo lavoro. Pieno di simboli e di immagini che rappresentano e spiegano silenziosamente la libertà, questo gioiellino dei primi anni '70, è a tratti più emozionante e commovente di "Easy Rider", più ribelle di "Convoy", e più concitato di "Duel", eppure non ha goduto della fama e della popolarità dei precedenti "fratelli", comunque sempre intramontabili e intoccabili. Punto di forza evidentissimo è la sterilità dell'interprete protagonista, Barry Newman, alias avvocato Petrocelli, che permette ad ognuno di noi di rivedersi in quel determinato quanto folle Kowalski (il cui nome non è un caso), che vuole vivere libero e ribelle contro un mondo che si sta adeguando al male minore pur di sopravvivere. Ma Kowalski no, lui non vuole sopravvivere: lui vuole vivere. Un lusso concesso a pochi in un territorio dominato dall'intolleranza, dalla violenza, dalla repressione e dal rigore come forme uniche di civile e pacifica convivenza.
Scene ed inseguimenti di un lirismo eccezionale, che da sempre fanno di un road movie qualunque la differenza sostanziale, sono qui amplificate con iperboli necessarie al linguaggio proprio del film. C'è chi lo sbriga come un "car movie", come potremmo fare oggi con "Fuori in 60 secondi" con Nicolas Cage, o "Fast & Furios", nei quali non è lontanamente rintracciabile una traccia di idea, di contenuto, di poesia e di Cinema. Perchè quello di "Punto Zero" è Cinema con la maiuscola, dove le immagini e i deserti, l'aridità e il sole, le musiche e le lunghe strade, sono la traduzione mitica del paesaggio interiore di un dissociato. Dell'ultimo vero cow-boy di quella frontiera divorata dal caldo e dalla legge. Ambienti e soluzioni figurative come sublimazione di un universo emozionale arrabbiato, duro, ma pieno di vita e di passione. Come quello di un grande eroe, di un guerriero senza armi, uno di quelli di cui s'è perso lo stampino, almeno al cinema. Così l'ordine diventa ancora una volta il grande male mascherato da modello democratico e giusto. Dio lo vuole! Quanta scorrettezza nell'abuso della religione. Ma a parte questo, il rigore di una vita conformata agli usi e costumi castranti della buona borghesia, la cui arte di apparire e nascondere il falso non è mai morta, è proprio il male da cui Kowalski fugge. Quest'anima libera fugge da una legge violenta, che conosce nelle armi e nella repressione l'unico linguaggio possibile, l'unico piatto di cui sfamarsi, l'unico credo religioso. Ma Kowalski fugge velocemente, e il finale, altrettanto veloce, io lo interpreto come l'ultima fuga dignitosa, ribelle fino all'esasperazione, fino alla discutibilità della scelta, eppure ugualmente disarmante e tollerabile, proprio perchè fa tenerezza. Nessuno dovrebbe dimenticare questa pellicola, per nulla datata, perchè tratta del Mito puro e semplice senza fronzoli e retorica. Il deserto sembra aver drogato di sè l'intera troupe, dal regista, agli sceneggiatori agli interpreti e ai tecnici, che ci han regalato un manifesto indiscutibile sulla libertà. Quella vera, quella che abbiamo dentro, quella che non fa male a nessuno, e che non si può regolamentare con leggi, norme e rigori vari. Questa libertà, poi, come una spietata lama a doppio taglio, porta pure all'autodistruzione, a quell'ultimo viaggio, quell'ultima fuga che non saremo mai in grado di spiegarci. Caro Marco, anche grazie a questo film, ci sei sempre più vicino, e forse il tuo gesto un po' più chiaro, anche se sempre più triste. Ci fa male e ce ne farà sempre di più.

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