Regia di Patrice Leconte vedi scheda film
Germania, 1912: un ingegnere minerario di umili origini appena laureato viene assunto in una fonderia, mostra una straordinaria abnegazione per il lavoro e si guadagna la benevolenza del proprietario, che lo nomina suo segretario personale e lo ospita addirittura in casa; qui conosce la giovane moglie di lui, e se ne innamora silenziosamente dal primo istante; proprio quando deve trasferirsi due anni in Messico per sovrintendere a una miniera di manganese, i due rivelano il loro amore reciproco e promettono di aspettarsi; ma nel 1914 scoppia la guerra, e le comunicazioni intercontinentali vengono interrotte. Non ho letto il romanzo di Stefan Zweig Il viaggio nel passato da cui è tratto il film, quindi non posso valutare la fedeltà del secondo, ma a occhio e croce direi che lo spirito dell’originale si è conservato: una frase allusiva come “Il mondo di ieri, il mondo che conoscevo, sta scomparendo e il presente non è che una penosa agonia” suona tipica dello scrittore viennese. Ma si percepisce nettamente anche la mano del vecchio Leconte, che ci fa una bellissima sorpresa confermandosi specialista delle storie di amour fou sotterraneo e recuperando lo spirito di alcuni dei suoi titoli migliori (Il marito della parrucchiera, Ridicule, Confidenze troppo intime): un amore platonico, frenato dalla volontà di non tradire la fiducia del proprio benefattore ma interiormente indistruttibile; un mentore che passa la mano senza darlo a vedere e favorisce in modo sornione l’incontro fra i due giovani (perché fa allontanare il suo dipendente: per togliere di mezzo un rivale o per indurlo a dichiararsi?). Sentimenti forti e sinceri, un romanticismo gradevolmente inattuale, servito dalla bella alchimia fra Rebecca Hall e Richard Madden e dall’interpretazione dolente di Alan Rickman. Anche il finale fa di tutto per non essere troppo lieto: il tempo ha lasciato inevitabili segni sui corpi e sulle anime, e nelle strade stanno sfilando i nazisti.
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