Regia di Arnaud Desplechin vedi scheda film
Jimmy Picard è un indiano piede nero arruolato nell’esercito statunitense. È un reduce della Seconda guerra mondiale. Il suo nome Piikáni si traduce come “colui di cui tutti parlano”. Gyorgy Dobó, antropologo e psicanalista, è oggi consacrato alla storia come il pionere della etnopsichiatria. Nato in una famiglia ebrea ungherese, cambia nel 1933 il suo nome in Georges Devereux. Jimmy P., tratto da Psychothérapie d’un indien des plaines, scritto da Devereux nel 1951, racconta dell’incontro tra questi due uomini. Delle sedute terapeutiche, del passato di Jimmy che riaffiora nelle parole e nella partitura delle immagini, della ricerca di comprensione di Georges. E, soprattutto, di tutto quello che eccede questo rapporto di cura, questa decodifica dell’uno nei confronti dell’altro: Jimmy P. non è solo un film su un processo di analisi. Non è un film che chiarifica. Perché Desplechin è interessato - da sempre - a ciò che deborda dagli schemi con cui interpretiamo il mondo. E che qui non s’infiamma nella forma isterica e massimalista del cinema precedente, ma s’ammutolisce sulla superficie opaca delle cose, in un’opera scarnita, insieme teatrale e minerale. È lo spettatore a essere invitato a gettare la luce, a unire i segni che circolano nel film, a rispecchiare Georges in Jimmy, a comprendere entrambi, i loro nomi dimenticati, i traumi subiti dalla Storia, il ginepraio dei sentimenti, degli impliciti, degli alibi, delle colpe, degli amori.
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