Regia di Marco Bellocchio vedi scheda film
I personaggi di questo film si dibattono nell'atmosfera ovattata della provincia italiana, che rende vano e ottuso ogni slancio emotivo. Gli spunti drammatici abortiscono in sfoghi puerili, mentre il paesaggio è troppo aspro, le strade sono troppo strette e le stanze troppo ingombre di oggetti perché la poesia possa toccare il suolo. Il disagio mentale è lo stagno dei sentimenti e dei desideri, unito alla difficoltà di tradurli in parole ed azioni. La psicosi di Sandro è l'affanno con cui egli insegue disperatamente la normalità, cercando di imitarla, fingerla, ricostituirla, rimuovendo o coprendo le anomalie esistenti. A tal fine egli usa la propria insensibilità come una micidiale arma da guerra. Il suo orgoglioso cinismo distrugge, perché quello è il modo malato in cui egli crede di poter edificare, intorno a sé, un mondo nuovo, nel quale diventare l'indiscusso protagonista. Facendo spazio, egli si illude di dare respiro alla propria energia interiore, eliminando il peso dei ricordi, delle abitudini, degli obblighi. Tramite il fare, egli mira a recuperare senso e dignità, compensando la propria irrimediabile incapacità di essere. E' questa, e non l'odio o la pietà, l'egoistica motivazione per cui Sandro uccide. I "pugni in tasca" sono la rabbia che si sfoga tra le pareti domestiche, dove la pressione si accumula fino a scatenare la violenza. La crisi epilettica di cui Sandro è vittima nell'ultima scena è l'immagine di una tensione interna che coarta la vita: la convulsione è l'inutile tentativo di divincolarsi dalla morsa di un'ingiustizia naturale, è l'assurda pretesa di rendere diritto un mondo che si presenta invariabilmente storto. Marco Bellocchio vanta il coraggio di aver ritratto, con un dettagliato primo piano, la devianza e l'assenza di morale che infrangono la sacralità della famiglia, seminando – esclusivamente per calcolo, e non per ragioni passionali – la morte tra la carne della propria carne.
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