Regia di Marco Bellocchio vedi scheda film
Ha costruito il Sessantotto, forgiato una generazione appisolata di ribelli contestatori, fatto esplodere la rabbia giovane, stimolato i ragazzi a togliere dalla tasche i pugni. Il pugno chiuso, simbolo comunista ma anche di un’ideale lotta contro “il mostro borghese”, al grido di “famiglie vi odio!”. A urlarlo per primo è stato Marco Bellocchio e la sua opera prima va letta anche in questo modo: un film ma che è soprattutto una seminazione sociale. La storia è terribile, ma Bellocchio sembra voler dire che tale crudeltà è indispensabile per salvare la famiglia, per scuotere una istituzione ipocrita: il nucleo familiare al centro della storia fa perno sulla figura di Augusto, il più sano ed insoddisfatto dei figli di una donna cieca e molto ricca, che abita nelle campagne piacentine assieme al ritardato Leone, all’epilettico Ale e all’irrequieta Giulia.
Ci sono molti momenti che possono essere considerati come tragici, ma ciò che è comunemente affina alla tragedia qui è un evento inevitabile per salvarsi dall’oblio. Un necessario orrore del quotidiano (come spiegare altrimenti la straziante e cattiva scena dell’omicidio della madre?), una sorta di “rifondazione sociale” che deve partire da un ripensamento della famiglia. Nella quiete malata di questo film dirompente e fondamentale per capire gli anni sessanta italiani si ritrovano influenze di Nouvelle Vague, Free Cinema, nuove tendenze che cominciano a condizionare il panorama nostrano, e, certo, il film ha i difetti imprescindibili degli esordi, ma che pugno nello stomaco alla società benpensante. L’allucinante finale (corredato dal lirico “sempre libera!”) non sfocia nella comparsa della parola FINE: significa che è è solo l’inizio della fine? Musica angosciante di Ennio Morricone. Inquietante Lou Castel ma nota di merito alla decadente Liliana Gerace.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta