Regia di Rodolfo Bisatti vedi scheda film
Il piccolo Giovanni non è nato cieco. Ha perso la vista all’età di quattro anni, in seguito ad una grave malattia. Del resto la cecità è spesso una condizione che si acquisisce, da un momento all’altro, per l’improvvisa impossibilità di continuare a guardare avanti, verso il proprio destino, nei volti delle persone che si hanno di fronte. Angelo Devade consegna i giornali. Ma un tempo è stato un docente universitario. Insegnava psicoanalisi. Poi, un giorno, l’orizzonte gli si è chiuso davanti agli occhi, è diventato incapace di sondare le menti altrui, di scrutare dentro i cuori della gente. L’amore ha prodotto il buio. Quello che tende trappole mortali, ed inghiotte le speranze. È la dimensione in cui si muovono i lupi, per dare la caccia alle pecore. È il rifugio che cercano i profughi ed i disertori. Ed è l’ombra che copre le miserabili azioni degli assassini. Non tutti, in quel regno di tenebre, sono in grado di vivere come se splendesse il sole. Giovanni ci riesce benissimo, anche se le sue pupille non colgono nemmeno un raggio di luce. Le sue mani suonano il piano e modellano la creta, e intanto la sua mente immagina o ricostruisce ciò che non può ricordare. Invece suo padre attraversa la notte come un’anima spenta. Prima dell’alba, si aggira da solo, nella sua Trieste, al volante del suo furgone, lungo le vie di una città che dorme ancora, per compiere il gesto meccanico e ripetitivo di deporre pacchetti chiusi davanti a saracinesche abbassate. L’unico faro, in quella inerte oscurità, è il rettangolo sbiadito di una fotografia. Un lampo scolorito che contiene la memoria di un dolore irrisolto, di una colpa che non ha ancora saputo trovare una definizione. Fra i due opposti universi – quello del chiarore perfetto, che trascende il tempo e non conosce limiti spaziali, e quello del nero assoluto, che blocca il pensiero ed imprigiona i sensi – si estende la landa tiepida di una normalità qualunque ed estranea, che si diffonde, sul grigio tessuto del quotidiano, come un lamento privo di voce, un male appena percepito, una sofferenza congelata da un coltre di plumbea impotenza. La madre di Giovanni non ha un lavoro e non comunica più col marito. Una laureanda prepara una tesi sul ragazzo, lo studia senza davvero capirlo, e soprattutto senza conoscere il vero motivo di quella ricerca. Pronuncia parole che cadono nel vuoto. Offre un vassoio di meringhe che non sono gradite. Ma c’è anche qualcun altro che indaga. È un ispettore della polizia di frontiera, che rivolge domande a destra e a manca, per avere informazioni su due persone, una donna e una bambina, che dovevano arrivare clandestinamente dalla Serbia, ed invece sono misteriosamente scomparse. È l’investigatore che percorre il confine tra la verità e la menzogna, in quella terra che si affaccia su un mondo diverso ed incomprensibile, in cui fino a pochi anni prima imperversava una guerra crudele, anomala, illogica. Il film di Rodolfo Bisatti è una suggestiva pagina di cinema indipendente, che basa la sua carica espressiva su un linguaggio frammentario e diretto, potenzialmente ricco perché curioso ed inquieto, tendenzialmente profondo perché amareggiato dall’aspetto mortificante della superficie. Le voci nel buio sono desideri che non hanno ancora trovato la strada. Sono sogni rimasti nell’attesa. E costretti, nel frattempo, a fare i conti con lo squallore stanco e volgare di una realtà spezzata.
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