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Psyco

Regia di Alfred Hitchcock vedi scheda film

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La recensione su Psyco

di Alvy
10 stelle

Opera d'arte totale: nulla sarebbe stato più come prima

 

 

 

 

 

Psycho dovrebbe essere visto almeno tre volte da qualsiasi spettatore attento, la prima volta per la pura esperienza del terrore, e in questo sono assolutamente d’accordo sul fatto che solo un guastafeste patentato potrebbe rivelare la trama; la seconda volta per la commedia macabra insita nella costruzione del film; e la terza per tutti i significati reconditi e i simboli nascosti sotto la superficie del primo film americano dai tempi di L’infernale Quinlan a stare nello stesso rango creativo dei grandi film europei Andrew Sarris

 

Ciò che rende 'Psycho' immortale, quando tanti film sono già dimenticati per metà quando usciamo dal cinema, è che si collega direttamente alle nostre paure: le nostre paure di poter commettere un crimine impulsivamente, le nostre paure della polizia, le nostre paure di diventare la vittima di un pazzo e, naturalmente, le nostre paure di deludere le nostre madri Roger Ebert

 

Vidi Psycho a uno spettacolo di mezzanotte nel suo giorno di apertura, un'esperienza che non dimenticherò mai. Il modello della scena della doccia lo usai anche per un combattimento in Toro Scatenato Martin Scorsese

 

Janet Leigh, John Gavin

Psyco (1960): Janet Leigh, John Gavin

 

 

La riproposizione in sala di Psycho presso il circuito distributivo Cinema Ritrovato della sempre meritoria Cineteca di Bologna, preceduta da una nuova edizione home video 4K UHD, dà a tutti gli spettatori italiani (un minuto di silenzio per la regione Calabria che non ha annoverato nemmeno una sala coinvolta allo storico evento) la possibilità di tornare a riflettere su quella che è, forse, l’opera più famosa in assoluto della storia del cinema mondiale, certamente una delle di quelle più viste in assoluto (forse, l’unico paragone possibile, a livello di pervasività nell’immaginario collettivo globale e intergenerazionale, è con Il padrino di Francis Ford Coppola)

 

Se definire il 1960 un anno spartiacque è certamente azzardato da un punto di vista di periodizzazione storico-accademica, al tempo stesso non pare peregrino affermare che i germi di quel cambiamento che avrebbe stravolto il concetto stesso di ‘classico’ e che avrebbe proiettato la settima arte nella modernità risalgano sicuramente all’annata in cui uscirono in sala capolavori leggendari come Fino all’ultimo respiro, La dolce vita, Rocco e i suoi fratelli, L’avventura, La ciociara, Tutti a casa, La maschera del demonio, L’appartamento, L’occhio che uccide, La fontana della vergine, I magnifici sette, Il villaggio dei dannati, Il buco, L’isola nuda, Tardo autunno e, ultimo ma non per importanza, Psycho

 

Marcello Mastroianni, Yvonne Furneaux

La dolce vita (1960): Marcello Mastroianni, Yvonne Furneaux

 

Jean Seberg, Jean-Paul Belmondo

Fino all'ultimo respiro (1960): Jean Seberg, Jean-Paul Belmondo

 

Jack Lemmon, Shirley MacLaine

L'appartamento (1960): Jack Lemmon, Shirley MacLaine

 

Janet Leigh

Psyco (1960): Janet Leigh

 

Le strade su cui la tecnica cinematografica camminava vennero totalmente stravolte ad ogni latitudine del globo. Non si trattava semplicemente di innovazioni tecniche in quanto tali (Technicolor, Cinemascope, VistaVision, etc.) quanto di una presa di coscienza, da parte di registi anche molto diversi tra loro, di poter utilizzare la macchina da presa per narrare qualcosa di nuovo in maniera radicalmente mai vista prima. Non è l’evoluzione tecnica ad ispirare questi artisti quanto la consapevolezza che bisognasse cambiare gli schemi, abbandonare le certezze della metropoli, con tutte quelle direttrici definite, nominate, caoticamente intrecciate ma comunque ben note nella loro geometria ortogonale, per avventurarsi su una strada statale alla ricerca di una nuova frontiera del racconto

 

Abbandonare la città e mettersi su una statale è esattamente quello che fa Marion Crane (interpretata da una grandissima Janet Leigh): ruba i soldi di una transazione nella banca dove lavora per coronare una liaison col fidanzato ricolmo di debiti (John Gavin). Così facendo, si imbatte in un motel-mausoleo, gestito da un inquietante appassionato di tassidermia, Norman Bates (Anthony Perkins, alla migliore interpretazione della sua carriera dalla quale difficilmente riuscirà a liberarsi).

 

Janet Leigh, John Gavin

Psyco (1960): Janet Leigh, John Gavin

 

Il Bates Motel, con quell’aria incantata di struttura ormai disertata da qualsiasi viaggiatore, è un non-luogo sospeso nel tempo e nello spazio, ai margini della vita civile, coacervo di traumi irrisolti, ad immagine e somiglianza del suo amministratore, anch’egli incapace, da tempo immemore, di espletare fisiologicamente l’esigenza tipica di ogni essere umano di relazionarsi col prossimo.

 

 

Hitchcock stravolge irrimediabilmente la struttura del thriller classico che aveva contribuito a creare e sposta l’asticella della narrazione ad un grado che renda il cinema un’arte autonoma in grado di funzionare di per sé grazie a ciò che la differenzi da tutte le altre forme espressive: il montaggio, che è ontologicamente cinema alla sua forma base.

 

Il montaggio è illusione ottica che rende vero ciò che vero non è. I 45 secondi della celeberrima scena della doccia necessitarono di circa 7 giorni di riprese, 70 posizioni di camera e 52 tagli di montaggio. Non vediamo mai il coltello infliggersi nella carne di Marion (anzi, in alcune scene non è neanche Janet Leigh a prestare il proprio corpo, bensì una controfigura di cui scorgiamo il seno nudo), è solo l’illusione ottica dovuta al montaggio, cioè al cinema nella sua accezione più pura, a darci l’idea dell’uccisione efferata. Ogni taglio di montaggio coincide con un taglio della carne del personaggio. E, a sottolineare questo in maniera ancora più incisiva (mai parola fu più esatta), contribuisce la leggendaria partitura musicale di Bernard Herrmann, il cui arco che stride sulle corde del violino restituisce in maniera ancora più agghiacciante l’idea del corpo dilaniato.

 

Il colpo di genio hitchcockiano non si limita, tuttavia, ad una mera ripresa veduta e aggiornata di tecniche tipiche del muto (un uso ‘moderno’ della musica era stato già fatto da Charlie Chaplin, seppur in chiave spesso antifrastica, in Luci della città, 1931, e poi in Tempi moderni, 1936, suo ultimo film muto) quanto di una radicalizzazione della sua riflessione sull’ossessione dello sguardo, qui condotta al suo estremo.

 

Se l’atto di filmare un omicidio è reso possibile unicamente mediante il montaggio, allora viene da chiedersi: cosa rende l’omicidio cinematograficamente compiuto? Il voyeurismo spettatoriale, non poi così dissimile da quello di Norman Bates che spia la nuova ospite da un buco. Lo spettatore, desiderando vedere ad ogni costo, cioè accettando volontariamente un patto di fiducia col creatore dell’opera basato sulla sospensione dell’incredulità, è di fatto assimilabile all’omicida.

 

Hitchcock porta i confini del thriller in un’altra dimensione nel momento in cui renda la scoperta del colpevole non la base portante del racconto bensì corollario di una riflessione teorica sulla morbosità dello sguardo. Allo spettatore del 1960, che ormai è ben più di mezzo secolo che divora alacremente cinema, non interessa più chi, interessa il come, e Sir Alfred ne è perfettamente consapevole

 

Janet Leigh, Anthony Perkins

Psyco (1960): Janet Leigh, Anthony Perkins

 

Il cinema classico viene scardinato nel momento in cui una sequenza venga parcellizzata in maniera così fine e minuta da rendere orrorificamente ineludibile la libertà dello sguardo. Se, fino al 1960, lo spettatore era rimasto libero di vedere o non vedere una scena, Hitchcock, frantumando la scena ricorrendo all'intero lessico delle inquadrature (primi piani medi e ravvicinati, inserti, campi medi, soggettive, riprese dall'alto e dal basso), obbliga lo spettatore a godere perversamente della totalità dello sguardo, facendolo precipitare in un vortice di orrore. Raramente, prima e dopo nella storia della settima arte, una compiuta forma di sperimentalismo si è così efficacemente sposata con l’intrattenimento popolare. Alla frantumazione della scena corrisponde la frantumazione del corpo di Marion. Frantumare una scena significa (s)montarla, spezzettarla in tanti piccoli pezzi, l’unione dei quali è l’alfabeto del cinema, quindi uccidere (la realtà per creare qualcosa di fittizio) è vita, vedere è uccidere, anzi, voler vedere è uccidere, perché è un impulso irresistibile.

 

Una scelta così radicale non può non far nascere qualcosa di radicalmente nuovo. Quando lo sperimentalismo approda ad un tale livello estetico, le ricadute narrative sono sconvolgenti: quella che, per più di 40 minuti, eravamo stati indotti a credere che fosse la protagonista del racconto muore. Quella che doveva essere la storia di una ragazza in fuga amorosa devia in qualcosa di diverso. Chi è il vero protagonista? Cos’è che stiamo guardando?

 

scena

Psyco (1960): scena

 

Psycho è un film sulla deviazione. Deviazione di colpa (Norman Bates ha rimosso qualcosa che ha fatto e lo ha deviato alla periferia della propria mente, proprio come il motel in cui vive è ai margini della statale), deviazione di strada (Marion abbandona la metropoli per imboccare la statale), deviazione della morale corrente (sarebbe stata pensabile, prima del 1960, la prima scena del film, con la macchina da presa che si insinua, come se fosse una minuta mosca – a cui non farebbe del male nessuno, neanche uno psicopatico - nella camera da letto di due amanti, di cui lui a petto nudo e lei col solo reggiseno?), deviazione di logica drammaturgica (può la protagonista morire a metà film? il poliziotto che nutre sospetti che fine fa? e la sottotrama del cambio auto a cosa serve?), deviazione di genere (non è un melo, non è un road movie, non è un western, non è un noir, la detection di Martin Balsam dura troppo poco per condurci dalle parti della detective story compiuta, non è un horror puro in quanto di sovrannaturale c’è davvero poco – o forse il sovrannaturale è solo l’illusione filmica, così ormai standardizzata da voler suggerire che il sovrannaturale sia ormai ovunque e anche dentro ciascuno di noi, non meno ‘sani’ di Norman Bates nel voler a tutti i costi guardare, anche a costo di farsi deliberatamente ingannare dal montaggio?)

 

La deviazione comporta necessariamente la dualità, una sorta di perversa ed imprevista corrispondenza biunivoca, in cui il bianco è associato al suo opposto, il nero. Se è vero che i motivi per cui il film sia stato girato in B/N (ottimo il lavoro di John L. Russell) siano da ricondurre tanto alla censura (per non avere problemi col sangue della scena della doccia) quanto alle esigenze produttive (il film fu girato - con un budget di appena 800.000 dollari tirati fuori da Sir Alfred quando la Paramount si rifiutò di sostenere il progetto, ritenuto troppo audace, limitandosi a distribuire - da ampia parte della troupe televisiva della serie Alfred Hitchcock Presents e il B/N, che Hitchcock non adoperava dai tempi di Il ladro, serviva anche a contenere i costi, come si faceva nei film di serie B dell’epoca), è altrettanto vero che siamo davanti ad una scelta estetica perfettamente sensata e centrata. D’altronde, Bernard Herrmann ha lavorato alla straordinaria partitura musicale ragionando in quest’ottica dicotomica e claustrofobica che lo ha portato a adoperare orchestralmente solo la sezione ad archi, rinunciando ad altri contrasti e dovendo, per questo motivo, innalzare la propria creatività di scrittura ad un livello inusitato per la Hollywood del tempo firmando una delle più stratosferiche colonne sonore di tutti i tempi

 

Janet Leigh

Psyco (1960): Janet Leigh

 

La dualità, d’altronde, non è un tema nuovo nella poetica di Sir Alfred (ed è sconcertante, in tal senso, leggere alcune tiepide recensioni di critici dell’epoca). Se, in Blackmail – Ricatto (primo film sonoro della storia del cinema inglese), la protagonista Anny Ondra si macchia di omicidio per legittima difesa, ma non sconta la sua colpa, condannando la propria coscienza a vivere un ambiguo status di ‘colpevole innocenza; se in Rebecca Joan Fontaine resterà sempre la seconda signora de Winter (soprattutto agli occhi della governante Judith Anderson, autentico doppio fantasmatico di Rebecca); se, in Delitto per delitto – L’altro uomo, due omicidi vengono scambiati come se fossero una pallina da tennis (e, non a caso, Farley Granger è un tennista); se, in Nodo alla gola, gli 80 minuti di (apparente) piano sequenza provano a far coincidere tempo della storia e tempo del racconto; se, in Io confesso, il segreto confessionale mette a repentaglio il senso di giustizia terrena di Montgomery Clift (senza dimenticare quanto la riuscita del film fosse compromessa dalla natura cattolica di un film destinato per lo più ad un pubblico non cattolico); se, in Il delitto perfetto, la tecnologia 3D mette allo scoperto l’istintiva avventatezza del dettagliatissimo e razionale piano uxoricida di Ray Milland; se, in Caccia al ladro, Brigitte Auber vuole imitare in tutto e per tutto Cary Grant; se, in La congiura degli innocenti, un omicidio, da cosa serissima, diventa motivo di umorismo (d’altronde, pur essendo una produzione americana, è di fatto un film inglese nello spirito); se L’uomo che sapeva troppo del 1956 è un autoremake, cioè una copia non conforme a colori dell’originale in B/N del 1934 (e quello che, nella prima versione, accade in una fredda montagna di St. Moritz, nella seconda avviene nel caldo Marocco); se l’inquadratura claustrofobica in primo piano dell’innocente Henry Fonda dietro la feritoia di una galera in Il ladro sembra essere il controcampo ideale del memorabile, lungo e lentissimo carrello dall’alto, girato da una gru, che smaschera il colpevole in Giovane e innocente; se, in La donna che visse due volte, Kim Novak interpreta Madeleine che muore per diventare Judy (pur essendo sempre stata Judy sotto mentite spoglie); se, in Intrigo internazionale, la scena con la maggior suspense si basa sul rovesciamento opposto dell’iconografia classica di tensione (lì dove solitamente si trovi una scena in interni in notturna, una scenografia ricolma di oggetti, una scarsa luminosità e la pioggia battente, qui troviamo Cary Grant in una scena in esterni, in un’ampia campagna illuminata dalla calda luce del sole) a testimoniare quanto l'agorafobia sia l’altra faccia della claustrofobia, a maggior ragione Psycho porta alle estreme conseguenza questo discorso.

 

Non solo il quadro clinico di Norman Bates (a partire dalla passione per la tassidermia, che è morte nascosta da vita impagliata e imbellettata), non solo il genere che gioca con le pretese spettatoriali per poi mandarlo fuori strada (magari su quella benedetta/maledetta statale), ma anche e soprattutto l’insistito gioco sul verticalismo. L’abitazione della Madre sovrasta l’hotel; la Madre sovrasta Norman, anzi è Norman; Martin Balsam ucciso cade dalle scale che stava osando salire; gli straordinari titoli di testa di Saul Bass, nel loro minimalismo così contemporaneo (quasi un inno al less is more di cui tutti i grafici di oggi si riempiono la bocca), sono costituiti da linee verticali bianche (come la lama di un coltello) che fendono lo schermo (nero); la colonna sonora di Bernard Herrmann sembra quasi avere una doppia personalità pur essendo costituita da soli archi (i momenti tesi, freddi, spietati, folli sembrano essere ammantati di un tocco di occasionale tenerezza, quasi echi dissonanti e atonali di Debussy, Bartok e Stravinskij si confondessero tra loro senza soluzione di continuità).

 

 

Anthony Perkins, Martin Balsam

Psyco (1960): Anthony Perkins, Martin Balsam

 

La madre (sic!) di tutte le deviazioni resta quello dello sguardo: anche qui, si tratta del proseguimento di un discorso specificamente autoriale che il leggendario regista britannico porta avanti da sempre. In Il sospetto Joan Fontaine è convinta al tal punto che Cary Grant voglia ucciderla da vedere tentativi di omicidio in ogni sua mossa, persino in un bicchiere di latte, così ossessivamente guardato da risultare quasi ‘acceso’ (è noto a tutti l’escamotage hitchcockiano della lampadina); in Paura in palcoscenico il flashback iniziale manda completamente fuori pista lo spettatore, che si illude sia oggettivo quando in realtà è solo la rappresentazione veritiera del distorto punto di vista di Richard Todd; in L’ombra del dubbio tutto lascia presupporre fin troppo scopertamente che sia Joseph Cotten il colpevole ma la morbosa empatia spettatoriale nei confronti della piccola Teresa Wright è almeno pari a quella di quest’ultima nei confronti dell’amato “uncle Charlie”; in Prigionieri dell’oceano il tedesco Walter Slezak riesce perfettamente a dissimulare, per i primi due atti del film, l’abilità di conversare fluentemente in inglese; in Nodo alla gola noi sappiamo fin dall’incipit chi siano i due assassini, ma l’oggetto di interesse è il baratro filosofico-umano che ha portato all’omicidio, con tanto di implicazioni psicanalitiche omoerotiche nel triangolo James Stewart-John Dall-Farley Granger; in Io confesso enorme importanza è data all’esteriorità di fatti e situazioni (l’ispettore Karl Malden guarda con sospetto il dialogo tra Montgomery Clift e Anne Baxter, per non parlare degli occhi trasparenti del sacrestano, degli occhi giudicanti della folla inferocita e dell’occhio di Dio cui Montgomery Clift non riesce a non pensare); in La finestra sul cortile il perverso desiderio provato da James Stewart che Raymond Burr sia colpevole rende quest’ultimo effettivamente colpevole sulla base di un solo intenso sguardo, che ha un non so che di irrisolto già a partire dal rapporto col binocolo (surrogato del fallo?) che appaga un prurito inespresso, tant’è che non possa neanche considerarsi un caso che il suo interesse per la fidanzata Grace Kelly si accenda nel momento in cui questa accetti di essere coinvolta attivamente della detection; in Caccia al ladro e Marnie il crimine si connota di un alto tasso erotico (il ladro Cary Grant soprannominato “The Cat” è irresistibile agli occhi di Grace Kelly, così come la ladra Tippi Hedren ammalia Sean Connery anche in virtù della propria ambiguità); in La donna che visse due volte James Stewart soffre di vertigini, non comprende bene i rapporti che intercorrono tra Kim Novak e il suo ex compagno di studi a causa del suo sguardo costantemente fuori fuoco e, nel ricostruire la perduta Madeleine in Judy, attua un processo di sadica necrofilia; in Gli uccelli la maggior parte delle sequenze si conclude con una dissolvenza su un personaggio che guarda fuori nel vuoto poiché l’unico sguardo che conta davvero è quello dei volatili (che beccano sadicamente le orbite vuote dell’agricoltore ucciso)

 

Cary Grant

Caccia al ladro (1954): Cary Grant

 

Tippi Hedren, Sean Connery

Marnie (1964): Tippi Hedren, Sean Connery

 

John Gavin, Vera Miles, Anthony Perkins

Psyco (1960): John Gavin, Vera Miles, Anthony Perkins

 

E non è d’altronde un caso che, in una galleria di personaggi hitchcockiani schiavi del proprio sguardo, nel sottovalutato Sabotatori l’unico che davvero creda, sin da subito, all’innocenza del protagonista Robert Cummings sia lo zio cieco della protagonista Priscilla Lane interpretato da Vaughan Glaser.

 

Robert Cummings

Sabotatori (1942): Robert Cummings

 

 

Psycho è Hitchcock all’ennesima potenza: summa di una poetica straordinaria e, al contempo, inizio della modernità cinematografica, in quel 1960 dove nulla fu più come prima

 

 

 

 

 

 

 

Piccole note:

 

1) Nanni Moretti sostiene che vi siano film che fungano da banco di prova per un’amicizia: ecco, ascoltate il regista romano e rompete l’amicizia con chiunque vi consigli il terribile biopic Hitchcock diretto nel 2012 da Sacha Gervasi con protagonista Anthony Hopkins, in cui l’intera poetica del grande regista britannico viene ridotta ad una serie di sublimazioni artistiche di una personalità malata e distorta

 

2) Il remake copia-carbone di Gus Van Sant del 1998 è un lucidissimo saggio teorico da riscoprire e da amare, uno dei pochi film della contemporaneità ad essere consapevole di essere un prodotto e non più un'opera artistica

 

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