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La vita di Adele

Regia di Abdellatif Kechiche vedi scheda film

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La recensione su La vita di Adele

di OGM
8 stelle

Un intero film scritto sui volti e negli occhi. Soprattutto quelli di lei, Adèle, che scopre la vita attraversando il suo lato più intenso, doloroso e sbagliato. L’esperienze di iniziazione all’amore ed alla conoscenza di sé non sono, nella realtà, quelle imprese eroiche e trionfali raccontate da certi romanzi. Sono, il più delle volte, fallimenti belli e buoni, delusioni cocenti, sconfitte dovute ad errori banali, leggerezze futili ma imperdonabili. Adèle crede di essere arrivata sulla vetta quando, invece, sta camminando sul ciglio del burrone. Nella vertigine che prova, il brivido dell’altezza viene scambiato per l’ebbrezza della vittoria. Crescere e conquistare la libertà sono due processi lenti e perigliosi, che Adèle si illude di poter assaporare in un soffio, semplicemente lanciando il cuore al di là dell’ostacolo, saltando quella barriera che il suo mondo – la cerchia delle amiche coetanee ed i suoi genitori – le aveva costruito intorno. La sua Emma, il suo primo amore lesbico, che coinvolge profondamente sia la sfera fisica che quella intellettuale, rappresenta, per lei, non solo il punto di partenza, ma anche l’approdo di un cammino di emancipazione che, ragionevolmente, non può essere così breve. Le quasi tre ore del film ne dilatano la durata, imitando ciò che avviene nella mente di quella adolescente, per la quale gli istanti equivalgono a mesi, ed i giorni sono lunghi come anni: il tempo soggettivo domina la scena, facendo sì che non siano le azioni a scandirne il ritmo, bensì i palpiti cadenzati delle emozioni che fioriscono poco a poco. Abdellatif Kechiche, dopo anni di affondi realistici stilisticamente incerti, di movimenti di camera volutamente sgraziati, di estenuanti maratone di improvvisazione verbale, ha finalmente saputo convertire in Arte la sua attenzione per la  espressività umana, che diventa il vero teatro della storia, silente origine delle parole ed trasfigurata manifestazione del pensiero. La centralità dell’individuo non è più data in pasto ad una rozza casualità, bensì curata nei dettagli, osservata con deferente curiosità negli accenti più flebili, in cui si nasconde il fremito dell’ansia e della sorpresa. Lo scrupolo del regista non è più frenato dal distacco, dal timore di interferire con la spontaneità del soggetto, ed ora le pennellate dell’obiettivo intervengono continuamente per sottolineare, con nobili ombreggiature letterarie, i tratti psicologici e le sfumature dei gesti.  Il ritratto, in questo modo, risulta genuino e dinamico in virtù della propria naturale forza interiore, che riesce a comunicare anche senza prorompere in discorsi sovrabbondanti e pose eccessive, intese come ostentazioni dell’identità culturale. Lo sguardo ravvicinato sull’altro e sul diverso è diventato uno sguardo partecipato, un sensibile contatto epidermico, in grado di trasmettere le vibrazioni dell’essere. Kechiche continua, rispettosamente, a non toccare, però, per una volta, mostra, felicemente, il coraggio di allungare le dita per sfiorare ciò che vuole invitarci ad amare. 

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