Regia di Abdellatif Kechiche vedi scheda film
Più vero del vero: il realismo di Kechiche è sconcertante, (im)puro; e disorienta, riempie gli spazi interstiziali tra esistenze che (non) si corrispondono e inevitabilmente si allontanano, scompone brandelli di vissuto per ricomporre un imponente affresco naturalista.
Pennellate di blu (capelli, occhi, cielo, mare), lacrime che sgorgano fluenti, secrezioni salivari e umori vaginali, il dolce cullare/fluttuare delle onde: Kechiche riflette sul peso specifico dell’acqua (simbolo della vita) mentre esplora/registra gli spostamenti progressivi dell’animo.
Animo configurato sulla disarmante selvaggia selvatica spontaneità di Adèle (Exarchopoulos: assurda stupefacente aderenza), creatura di impossibile bellezza e fragilità; inseguita, inquadrata, ritratta ossessivamente per catturarne, e fare propria, la “misteriosa debolezza del volto umano”.
Comprensibile l’ebbro, incessante, quasi estenuante, incollarsi al suo volto, ricercandone (micro)espressioni, bronci e mutamenti, carezzandone le ciocche ribelli di capelli, sfiorarne le indecenti labbra, (r)accoglierne respiri ansie e ansiti di piacere, ed afferrarne l’inafferrabile (straordinarietà dell’essere): la macchina da presa è così vicina da oltrepassarla, ritrovandovisi felice dentro.
Ed è Adèle a scrutare noi.
Lei sì, d’impressionante autenticità: ed infatti, quell’inquadrarla in primissimo piano, a tratti da fermo immagine - metodo che non ammette distacco ma anzi chiede ed esige, ottenendola, robusta partecipazione - riveste anche l’accorta funzione di celare, e rendere “calda”, l’innegabile cerebralità (si veda anche la divisione in capitoli 1 e 2 svelata soltanto sui titoli di coda) e l’identità programmatica dell’opera. Col passare dei minuti, e del tempo, la scrittura - che ha di per sé carattere prolisso - tende al fumoso (nel progredire della storia tra la protagonista e l’amata, Emma) e rischia di scivolare nella maniera giacché ripete meccanicamente schemi e strutture (non solo proprie del film stesso).
Non è sufficiente, comunque, a condizionare il valore del racconto. Che è, nel suo complesso, vibrante, potente e ipnotico. E s’inebria del rigore della messa in scena: lo sguardo del regista è inesorabile; adatta per armonia e dissonanze frammenti di arti e letteratura, e sfodera crudezza, dolcezza, carnalità (il contorcersi/congiungersi dei corpi di Adèle e Emma) come elementi organici di una rappresentazione “viva” e sincera - tanto più sincera quanto è rigida ed autoritaria la mente che sta dietro - delle imperscrutabili fatali caotiche strade sperdute dell’esistenza.
E lungo una strada - destinazione ignota - cala il sipario, con Adèle, vestita del blu della malinconia, che si allontana, sola e smarrita, pronta a percorrere le scene della sua vita.
Il film non finisce. Perché non è mai cominciato.
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