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La vita di Adele

Regia di Abdellatif Kechiche vedi scheda film

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La recensione su La vita di Adele

di EightAndHalf
8 stelle

"Mostrano naturale ciò che non è naturale". In un cinema medio italiano, le voci si diffondono indispettite e scandalizzate, parlando di naturalità e di sfrontatezza. Ed è effettivamente una sfrontata verità, quella raccontata dall'abilissimo Kechiche, una verità che forse è difficile accettare, o forse vogliamo accettare, una verità che coincide o meno con la nostra vita, una Verità che si pone armonicamente in confronto alla vita di ciascuno spettatore, che vive le pulsioni, i rancori, le tristezze di una giovane donna di cui viene osservata la crescita, la maturazione sessuale, la scoperta dell'amore. La vita di Adele scorre fluido e immenso, racconta attraverso la ripetitività, le azioni risapute, le azioni sempre viste e sempre vissute, la profondità della nostra interiorità, come può essere apocalittico un personale conflitto esistenziale, come può generare la tristezza 'senza un perché', non solo nel normale stadio dell'adolescenza, in cui la vita comincia a sbocciare e a costruirsi intorno all'incapacità di trovare la propria strada (e trovarla a discapito del proprio passato), ma anche nell'età del 'giovane adulto', in cui la vita sembra aver preso una direzione, in cui sembra tutto in discesa, ma che improvvisamente sterza verso una salita insopportabile, che distrugge certezze, consapevolezze, amori. Per questo il film è prevedibile: perché ognuno di noi vive e indossa quelle pulsioni, perché Kechiche non si limita a entrare 'nella pelle' della protagonista (come lei stessa dice del libro che legge da giovane), ma entra 'nella pelle' di chiunque sappia farsi leggere dentro da immagini scattanti, veloci, che vivono nella continua tensione fra la prosaicità della vita e la profondità dell'arte (la festa e le immagini di un film muto che si alternano ipercineticamente), dimostrando come l'arte possa essere specchio della vita umana. Non ci si aspetti dunque spettacolarità, pruriginosi sguardi erotici (poiché nella lunghissima scena di sesso esplicito viviamo la pulsione sessuale e la vitalità della giovinezza, né visioni disperate né visioni idilliache e stilizzate), noiosi dialoghi risaputi, ma Vita, speranze, pianti e carezze, che procedono in una lunghezza assente che si fa 'passare del tempo', 'passare degli anni', sempre come se 'il passato fosse morto da pochissimo tempo'. E' così che Kechiche entra nella Vita come pochi avevano fatto, secondo un progetto ambizioso che chiunque regista dovrebbe porsi, e che qui si realizza, senza farci sentire onnipotenti perché conosciamo qualsiasi sfaccettature della protagonista, ma facendoci sentire parte dell'umanità, paradossalmente meno soli, facendoci tirare un sospiro di sollievo per la possibile solidarietà che noi vediamo costruirsi da parte nostra nei confronti di una protagonista dispersa. Lo stile è quello vivo e reale de La schivata, lo sguardo di Kechiche è un altro, quello di chi ha percorso così tanto la vita, fra filosofia, arte (il conflitto fra Schiele e Klimt nella rappresentazione dei corpi nudi, così come sono lisci e espliciti i corpi nudi delle due protagoniste), letteratura e cinema da saper riversare tutto in una manciata di ore offrendo realtà banale e stra-vissuta e pathos mai edificante ma sincero e appassionato. Così, mentre la giovinezza è scandita dall'arte e da tutti i suoi stimoli, che possono far cambiare o meno, essere apprezzati o meno (così come avviene a un adolescente che va a vedere questo film con amici e ne può discutere più o meno consapevole di essersi visto nello schermo e nel pensiero di un regista che si dimostra maestro in maniera definitiva), così l'età adulta si costringe a sguardi nuovi, verso possibilità altre (Adele ha di nuovo rapporti eterosessuali), verso possibili nuovi castelli in aria, sapendo che le nuove fondamenta crolleranno perché diverse da quelle create nell'età del costruirsi vitale. L'adolescenza così non lascia via di scampo, vive tra umanità convinte e dalla posizione schiacciante e sicura (le giovani amiche di Adele l'accusano quando la vedono scappare con un'altra ragazza lesbica), cerca di liberarsi dal tormento della propria diversità trasformando quella in normalità (cosa che è, perché non esiste normalità condivisibile da tutti), vivendo gradualmente la propria autoconsapevolezza, per poi vederla sfumare nel corso della vita. Così la famiglia è specchio della propria sicurezza, ovvero l'arte di dire o meno ai propri genitori di essere omosessuali o meno. Così l'amore diventa Vita, perché Emma diventa la Vita di Adele, che se ne va per nuovi pianti e illusorie certezze, e Adele diventa la Vita di Emma, che vivrà nella finzione dell'arte (nei dipinti farà sempre ritratti di Adele) e nella finzione della vita famigliare (che non le dà la soddisfazione sessuale che viveva in precedenza). Se Adele potrebbe essere considerata sola, e disperata contiua a vivere per autotrascinamento, in realtà, allo stesso modo in cui noi viviamo per lei, Kechiche rispecchia la sua esistenza in quella di Emma, riunendo la complessità e la complessa variabilità del genere umano, dimostrando che siamo tutti diversi ma tutti uguali. Adele ci saluta come saluta la sua Vita, di cui vedevamo la costante realtà delle situazioni e l'incostante palpabilità dei sogni (l'atto masturbatorio iniziale, il blu dell'acqua che scoglie il colore dei capelli), senza che questo spinga il regista franco-tunisino a generalizzare, ma spingendolo a aprire la Vita all'intera umanità. 
La vita di Adele cambierà la storia, perché la sua semplicità soffocante, fatta di volti l'uno vicinissimo all'altro (così come la regia che si appiccica a chiunque, riprendendo la scena in cui l'amica chiede ad Adele se con un'amica si parla tenendo più o meno vicina la faccia all'altra), ha soddisfatto il progetto in realtà più ambizioso che un regista iperrealista poteva mai avere in mente, ritrarre la vita senza filtri stilistici o contingenti, espandendo finalmente il cinema nelle nostre esistenze, aggiungendo alle verità che raccontava da La schivata Cous Cous il pathos dell'interiorità e della vita del singolo, accumulando le sue coralità in una sola persona, facendo battere un cuore allo schermo cinematografico.

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