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La vita di Adele

Regia di Abdellatif Kechiche vedi scheda film

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La recensione su La vita di Adele

di lorebalda
4 stelle

 

Tutta colpa di Kechiche

La vie d'Adèle (Chapitre 1 & 2)
è un film sbagliato, inautentico. Una delusione tanto più bruciante se si tiene conto che il regista, Abdellatif Kechiche, fino ad oggi non ha sbagliato un film. Eppure le premesse per un’assoluta riuscita c’erano tutte: un’attrice protagonista sorprendente; il ritorno alle ambientazioni e alle atmosfere di L'esquive, il capolavoro di Kechiche; la lunga durata, che ben si adatta al cinema ambizioso e corale dell’autore franco-tunisino. Ma qualcosa non ha funzionato.

La vie d'Adèle racconta una storia d’amore. L’inizio è notevole: le dinamiche fra i giovani sono osservate col consueto sguardo di Kechiche, un punto di vista intimo e distaccato al tempo stesso. La narrazione è fin da subito ellittica, disarticolata, dominata dalla gestualità insicura dei ragazzi che il regista è abilissimo a riprendere: una lacrima, una ciocca di capelli succhiati nervosamente, un rossore, uno sguardo di sfida oppure perso nel vuoto. È il momento migliore del film, quando la struttura narrativa, il 'progetto' del regista, ancora non si impone. Lo spettatore respira.
Una sequenza bellissima: Adèle incontra Emma (la Seydoux), la ragazza dai capelli blu, per strada.

La macchina da presa perde le coordinate, e lo spettatore prova le stesse sensazioni della protagonista: disorientamento, folgorazione. Le parole non servono: solo sguardi, il respiro affannoso. Il soundtrack intradiegetico, utilizzato con grande finezza, colora l'incontro di venature fantastiche. È l’amore a prima vista – La vie d'Adèle compie il miracolo, mette in scena la nascita del sentimento. È una sequenza, questa, che pure nella sua brevità lascia lo spettatore con un vuoto, senza certezze – e allora si perdona volentieri al regista la sequenza precedente, terribilmente didascalica, nella quale il professore di Adèle analizza La Vie de Marianne dell'amato [da Kechiche] Marivaux, e chiede ai ragazzi se l’amore sia guadagno o perdita. Facendo a meno delle parole, l’incontro casuale fra le due ragazze, in un'atmosfera quasi magica, dice tutto.

Altra sequenza eccezionale, pochi istanti dopo: la notte, Adèle si masturba, e immagina di avere un amplesso proprio con Emma. Una scena sorprendente, calda e sensuale. Che trasuda vita, desiderio. Il montaggio crea il ritmo, lo sguardo non si sofferma sui dettagli, piuttosto li lascia intravedere furtivamente: vibrante, l’immagine sembra esplodere di emozione.

Purtroppo il film non raggiungerà più l’intensità di queste due sequenze. Non c'è più la leggerezza de L'esquive: ora che Kechiche deve raccontare per davvero la storia d’amore, il film diventa banale. Curiosamente freddo, accademico. Il regista franco-tunisino, la cui forza sta proprio nell’intimità di uno sguardo bruciante, caldo e sincero, vivo, non permette mai ai sentimenti di dominare le immagini: piuttosto li incornicia [dopo un primo piano c'è sempre bisogno di un campo lungo, di portare pulizia nella composizione], e li tiene sotto controllo, come fa, per certi versi, con l’interpretazione straordinaria di una acerba Adèle Exarchopoulos.



E arrivo allora a uno dei problemi del film: le attrici. Il doppiaggio italiano, spesso dannoso, mi ha permesso invece di concentrarmi sui volti, i gesti – l’interpretazione fisica. E il film, da questo punto di vista, mi è sembrato subito squilibrato [anche i tanto lodati primi piani di questo film mi sono sembrati messi insieme con una certa superficialità: senza l'intensità dei primissimi Dardenne, se vogliamo rimanere in ambito francese].
Tre elementi non si fondono. Le due attrici sono mal assemblate: Adèle Exarchopoulos è alle primissime armi, acerba e malleabile: nella sua interpretazione c’è qualcosa che un'attrice possiede soltanto ad inizio carriera, e che col tempo inevitabilmente si perde. Sembra una non professionista, tanto è naturale. La Seydoux, invece, ha già una certa esperienza: ha recitato in tanti altri film. Anche per questo credo davvero ai litigi furiosi, riportati dai cronisti, fra la Seydoux e Kechiche: a conti fatti la divetta francese appare un elemento estraneo – non ha nulla a che fare né con il film né, più in generale, con il cinema di Kechiche. Il risultato finale infatti è un compromesso fra due mondi diversi, troppo diversi. Va detto, a difesa della Seydoux, che il suo ruolo è scritto anche male: a parte la sequenza del primo casuale incontro per strada, Emma è un personaggio senza mistero, senza interesse. Senza verità.

Forse anche per ridurre l'evidente diversità fra le interpretazioni delle due ragazze Kechiche ha raffreddato, bloccato il film. Non voglio credere all'ansia del capolavoro [accusa che ho letto ovunque all'uscita di Venus Noire], all'ossessione del controllo. Kechiche è un autore troppo importante, che ha già dimostrato il suo valore: non ha bisogno di imporsi. Preferisco pensare che, ad un certo punto, l'autore franco-tunisino, resosi conto che la Seydoux non poteva essere piegata al progetto originario, abbia avuto paura che il film gli potesse sfuggire di mano. Solo così mi spiego infatti l'abuso, in presenza della Seydoux, di un montaggio più rapido (campo-controcampo tradizionale). E forse per lo stesso motivo, ovvero per appianare le differenze interpretative fra le due attrici, Kechiche ha cercato di dominare Adèle, di limitarne la verità dell'interpretazione [tanti primi e primissimi piani potevano/dovevano durare di più]. Ne è venuto fuori un film compromissorio, che non a caso dà il meglio quando il personaggio di Emma, la Seydoux, non c'è, ovvero quando Kechiche può raccontare per davvero Adèle.



Ma non possono bastare un inizio e un finale ispirati: in mezzo ci sono due ore di film paradossalmente fredde e artefatte, senza gioia che non sia costruita e pensata a tavolino. Sicuramente c'è anche qualcosa di molto vero, di molto toccante, nel film, ma alla fine rimane la sensazione di inautentico, di forzato. E le scene di sesso [il modo in cui sono girate], assolutamente giustificate da un punto di vista narrativo, spiegano bene la paradossale debolezza di La vie d'Adèle: non coinvolgono. Sono gelide, devitalizzate. Hanno la stessa freddezza degli amplessi consumati nei bordelli di Venus Noire. La più grande sfida di Kechiche, raccontare l'amore fisico, l'orgasmo femminile (elogiato nel film), è stata persa, per di più clamorosamente: è solo una collezione (artistica) di posture, un'orchestra di gemiti che però non comunica passione.






E qui la Seydoux non c'entra (anzi, ha avuto coraggio, certi dettagli sembrano hard – però perché dire che sono state usate delle protesi?): Kechiche privilegia inspiegabilmente il campo largo, una rappresentazione insistentemente fredda e composta proprio nel momento in cui la passione dovrebbe esprimersi con forza dirompente. E così anche certi simbolismi (il bacio controluce, i capelli in acqua di Adèle sembrano brillare di blu), al primo impatto molto belli, a conti fatti denunciano un'insicurezza del regista, che non lascia mai il suo film, o la sua attrice, respirare a pieni polmoni.



Inspiegabilmente, La vie d'Adèle è un film soffocante. Nonostante la macchina da presa a mano, Kechiche non fa filtrare neanche un po' d'aria. E questo va bene nel finale di delusione, ma cosa c'entra con la prima parte, la scoperta dell'amore? Sono squilibri che neanche la giovane attrice protagonista, per quanto eccellente, può coprire. La prima parte del film è uguale alla seconda – le risate si trasformano in pianti, le carezze in schiaffi, ma La vie d'Adèle non cambia.
Questi i difetti. Non mi concentrerò sulla banalità dei dialoghi, che ho trovato davvero mal scritti. Con una certa cattiveria, si potrebbe dire che sono già sentiti, a rischio ovvietà, come il film stesso. Ma La vie d'Adèle, progetto di un capolavoro, mi ha fatto pensare proprio a questo: che sia la vita ad essere banale?

 

 

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