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Tracks - Attraverso il deserto

Regia di John Curran vedi scheda film

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La recensione su Tracks - Attraverso il deserto

di scapigliato
8 stelle

Il wilderness-drama si arricchisce di un nuovo film dal grande impatto visivo ed emotivo, due componenti di cui l’opera terrica non può fare a meno. L’avventuroso viaggio di Robyn Davidson nel 1977, da Alice Springs fino all’oceano indiano, attraversando uno dei deserti più ostili del pianeta, lei, matura ventisettenne, asociale, problematica, in cerca di se stessa o semplicemente in cerca della verità macandlessiana, con cui ora possiamo innervare tutto la filosofia del viaggio nella natura selvaggia dalle origini ai giorni nostri in avanti, è appunto composto da contributi visivi spiazzanti, impiegati con maestria sia per narrativizzare il mito della selva sia per affascinare lo spettatore e iniettargli in corpo il desiderio fisico di quello scenario; così come la componente emotiva gioca sui primissimi piani di Mia Wasikowska, con la sua fanciullesca innocenza ferina stampata in volto, un volto freddo e caldo allo stesso tempo, un volto maschio e femminile in perfetta sintonia, un volto intenso e distaccato come solo chi è dotato dello spirito del duende può avere. Tra le prime inquadrature del film ecco la sagoma della protagonista, distorta dal calore buttato fuori dalla terra, che si fonde letteralmente con lo sfondo naturale del deserto. Un’iniziale dichiarazione poetica ed estetica con cui l’ottimo Curran ci annuncia la sua idea di wilderness-drama: intima ed intimista, filosofica e simbolica ad una seconda lettura delle immagini e soprattutto tanto viscerale da riprendere da quel periodo glorioso, i 70s, estetiche, pose, linguaggio cinematografico e la grana grossa delle immagini sature di colori e di forme materiche teorizzando così che un’opera “selvaggia” non può che essere tradotta in questi precisi termini. Un’idea di fusione dell’elemento umano con quello naturale ricordata qua e là nella pellicola attraverso i nudi della Wasikowska nuovamente fusi con l’ambiente – e il nudo è un’altra categoria di narrativizzazione del materiale antropologico che non si può prescindere in operazioni di questo respiro – così come attraverso le riprese aeree, a piombo, tipiche del National Geographic style, e l’autocitazione che il regista fa di sé quando il fotografo Rick Sloan confessa che con le ottiche che usa riesce ad appiattire il soggetto, ovvero la Davidson, con lo sfondo, il Uluru Rock, facendo così credere che il soggetto si trovi esattamente sotto lo sfondo. E così via, il viaggio ha inizio, e si snoda lungo la rassegna dei topici del genere né banalizzati né sterilizzati nel loro utilizzo. La partenza è già metà del viaggio stesso e delle sue problematiche: isolamento, eremitismo, asocialità, copula filosofica con l’intorno naturale, conoscenza e scambio culturale con l’archetipo nativo. In seguito, ecco il viaggio con le sue tappe, le sue fatiche, le sue stazioni crocifere, i simboli e i segni della selvaticità e della ferinità. Non solo i dromedari con cui viaggia la protagonista con il suo cane, già di per loro referenti animali non sterili nel tratteggio della personalità della Davidson, ma anche quelli selvatici che caricano su quelli addomesticati, o i grossi serpenti che minacciano nella loro totemica figurazione fallica la femminilità della protagonista, oppure i canguri che da teneri pupazzi di peluche diventano lauta e bestiale cena. Ma soprattutto è l’animalità morta ad essere presente come referenza di un gruppo segnico, quello animale, fortemente incisivo per il tema centrale di un wilderness-drama. Ossa bianche che brillano nella rossa sabbia del deserto australiano, cadaveri di bovini morti e bruciati sotto il sole, carogne di canguri imputridite nel bel mezzo del nulla, scheletri umani di chissà quale avventuriero scomparso da tempo – forse il Livingston di cui si accenna all’inizio del film? – così come le carcasse essiccate di una coppia di dingo appese a travi di recinzioni buttate così nel nulla, ultime rovine di un’umanità scomparsa. Infine, l’incontro con la morte: il cane che inghiotte stricnina, l’inevitabile abbattimento, il rimosso che ritorna, la follia, l’intrico e poi di nuovo la luce e l’equilibrio. Allo stesso modo, anche la fauna umana diventa referente di un territorio e di un una cultura attraverso il proprio linguaggio. Dai burberi e beceri abitanti di Alice Springs presso cui lavora la Davidson prima di partire per la west coast, abbruttiti e animalizzati dalla distanza civile che separa loro dal resto del mondo, fino all’incredibile figura dell’anziano aborigeno Mister Eddy, interpretato da un generosissimo Rolley Mintuma, logorroico fino alla nausea, in barba alla vecchia immagine dell’indigeno taciturno e schivo, personaggio lineare come la propria cultura primitiva e proprio per questo eletto Virgilio portatore di prodigi. Tra loro una schiera di personaggi marginali di grande intensità archetipale come il discendente arabo di una famosa famiglia di cammellieri, figura paterna e anziana che tempra l’animo del guerriero primo della battaglia; la coppia di anziani coloni bianchi che fino all’ultimo non sappiamo se sono reali o soltanto proiezioni allucinate della protagonista, tanto è tenue e magica la mano del regista che dipinge lo sguardo con cui ci vengono presentati; oppure l’eremita bianco che vive in una roulotte in mezzo al deserto, amico e compagno degli aborigeni del luogo, un Robinson consapevole del suo distacco, un Filottete conscio e orgoglioso del proprio esilio; e come loro anche gli aborigeni della riserva, quelle donne abbruttite dalla separazione con la propria terra e il loro edulcorato carceramento, o la famiglia selvaggia, anch’essa persa nella vastità del nulla, primitivizzata dal territorio e dalla sua storia, ma irrimediabilmente umana e umanista. Per chiudere con Rick Sloan, il mentore, il diavolo luciferino con cui la bella Robyn patta e decide di vendere la propria storia al National Geographic in cambio di soldi per poter iniziare la sua avventura. Il sogno primitivista, anarchico, autarchico e infine anticapitalista della fuga nella natura selvaggia si infrange nel proprio paradosso. Adam Driver interpreta il noto fotografo del Geographic con una credibilità terrigna che confà alla pellicola. La sua stazza fisica, il gigantismo dei tratti somatici e l’autoironia di cui dota il personaggio, aiutano a collegare l’uomo con l’animalità tanto cercata dalla Davidson che ha il suo climax nella copula selvatica, circondata da pietre, terra rossa, arbusti spinosi, luce canicolare e cammelli castrati, risolvendo così l’assenza fallica del maschio già simboleggiata lungo le varie tappe del film – serpenti che strisciano sulle beltà femminili, animali castrati, virilità marginale di padre, datori di lavoro e amici vari. In questo senso è curioso notare come nel film gemello di Tracks, il capolavoro di Sean Penn Into the Wild (2007), abbiamo un maschio che si perde nella natura femminile, mentre qui abbiamo una femmina che si perde nel desertico maschile. Solo una cosa purtroppo non si capisce bene del film. Se sia più bella Mia Wasikowska o la natura selvaggia australiana. O forse la Wasikowska è la natura selvaggia australiana.

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