Espandi menu
cerca
I disertori - A Field in England

Regia di Ben Wheatley vedi scheda film

Recensioni

L'autore

Utente rimosso (PoorYorick)

Utente rimosso (PoorYorick)

Iscritto dal 30 novembre -0001 Vai al suo profilo
  • Seguaci -
  • Post -
  • Recensioni 26
  • Playlist -
Mandagli un messaggio
Messaggio inviato!
Messaggio inviato!
chiudi
Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su I disertori - A Field in England

di Utente rimosso (PoorYorick)
8 stelle

300mila sterline, una sceneggiatura definita come “a psychedelic civil war drama” e un campo nella campagna inglese. Questo è tutto ciò di cui era in possesso Ben Wheatley all’inizio delle riprese. Il pacioccone regista dell’Essex non è di certo un genio – penso concorderemo tutti – ma è dotato di un talento e un occhio, oltre che di un gusto nelle scelte, fuori dagli standard piatti degli altri suoi colleghi coetanei, che lo rendono abbastanza unico nel panorama cinematografico contemporaneo. Non ha la pretesa di farsi chiamare “genio”, non vuole produrre arte a tutti i costi, prima per sé e poi per un eventuale pubblico, come – faccio un nome a caso? – un autore come Refn. No, quello che vuole fare – e fa – Wheatley è Cinema, nel suo significato più originario e pop. L’essere per forza colto non vale quanto il voler raccontare una storia e trasmettere sensazioni per questo paffuto ragazzotto inglese, che riesce puntualmente ad accontentare occhio, cervello e viscere del suo pubblico. Nonostante ciò il suo, ed in particolare questo A field in England, è un tipo di cinema anormale e non per tutti, e questo Wheatley ci tiene a precisarlo bene prima dell’inizio. Perché? Perché con quei pochi mezzi a disposizione, cinque attori e quel campo, il vecchio Ben ci farà vivere un allucinante inferno sulla Terra.La pellicola consiste in due atti: il primo è il viaggio di ricerca-perdita, con un’impostazione da pièce teatrale recitata in inglese arcaico su toni quasi-parodistici. Una scampagnata condita da humor nero e goliardia, tra i quali vengono abilmente disseminati qui e là sprazzi stranianti, accentuati da riprese ravvicinate con camera a mano su rovi ed erba e dall’uso di punti di presa poco convenzionali, stridenti, sintomi che trasmettono inquietudine. Il montaggio qui è blando ma caratterizzato da stacchi tra una scena e l’altra simili a chiusure di palpebre, che accennano ad un’atmosfera onirica. L’efficace uso degli spazi è un altro elemento a contribuire, primo su tutti quell’infinito campo-limbo ripreso tramite campi lunghi che urlano isolamento e spaesamento, con la birreria che lentamente diventa sempre più una meta e una promessa irraggiungibile.La seconda parte, con il raggiunto apice della paranoia dato dal ritrovamento di O’Neil, si trasforma ben presto in un delirante inno alla perdita di ogni punto di riferimento, sia fisico sia – soprattutto – razionale. L’ingresso in scena del demoniaco alchimista spazza via a colpi di caos, progressivamente, ogni minimo elemento di coerenza narrativa e registica. Il tesoro si rivela ben presto essere un MacGuffin e la storia da quel momento si inchioda, mentre le inquadrature, prima spesso così ampie, implodono sui personaggi e, in maniera ancora più allucinante, su minuscoli dettagli con sfondo sfocato. Qui trova nuova potenza anche l’uso del b/n digitale, elemento dapprima con sola parvenza estetica, ma che si rivela efficace nella percezione di chi guarda, costringendo l’occhio in stato semiaperto grazie al bagliore dei bianchi e all’oscurità dei neri. I colpi finali sono assestati dal ricorso a particolari tecniche registiche quali simil-tableau vivant e sequenze ipercinetiche che ricordano il miglior Tsukamoto, oltre ai sempre più frequenti POV per esasperare ulteriormente l’immedesimazione. Questo continuo climax, assecondato da un sonoro paranoico e alternativamente muto e martellante, culmina infine con dieci deliranti minuti di trip ansiogeno e allucinogeno che non si fa mancare nulla tra sfarfallii, immagini stroboscopiche e fruscii assordanti che si concludono con l’esplosione finale di violenza fisica.A Field in England è un campionario di originalità, a partire dalla già citata fuga psicogena della trama fino a una messa in scena che annulla la temporalità in un bianco e nero plumbeo, per poi bombardarlo di lampi, immagini pulsanti e montate a una velocità così stordente da risultare persino pericolose per chi soffre di epilessia fotosensibile: la caduta nel mælström dell’assurdo è così totale e priva di paracadute da costringere lo spettatore a lasciarsi abbagliare e dominare dal mondo che prende vita sullo schermo. Come i soldati che seguono l’alchimista sulla via dello stordimento e della distruzione con la sola chimera di una bevuta in birreria, anche il pubblico di A Field in England è condotto per mano da Wheatley sull’orlo di un burrone, e poi oltre. Al di là del godimento di fronte all’estasi visionaria del film e alle battute che si rimpallano i protagonisti, A Field in England richiede un atto di fiducia, l’accettazione di una realtà altra che non segue regole prestabilite e in cui tutto non è solo possibile, ma necessario e ineluttabile.
Sorta di versione allucinata e delirante di Winstanley di Kevin Brownlow e Andrew Mollo, A Field in England è un viaggio psichedelico senza colori, in cui non esistono morte e vita (in questo sarebbe interessante approfondire il discorso proponendo un parallelo azzardato ma non così folle con il western lisergico di Jim Jarmusch, Dead Man), ma solo loro percezioni subliminali. Un film a basso costo (si parla di un budget stimato sulle 300.000 sterline) destinato a rimanere probabilmente materia per pochi, ma che conferma le eccellenti doti registiche del quarantaduenne Ben Wheatley, divertito eversore del nuovo cinema britannico.

Ti è stata utile questa recensione? Utile per Per te?

Commenta

Avatar utente

Per poter commentare occorre aver fatto login.
Se non sei ancora iscritto Registrati