Regia di Harald Zwart vedi scheda film
Inserito tra i pretendenti al trono lasciato vacante dalla serie baciata dalla fortuna Twilight, giunge ora, annunciato dai chiassosi squilli di tromba di una campagna promozionale massiccia e che dura da tempo, Shadowhunters: Città di ossa, anch’esso tratto, nemmeno a dirlo, da una saga letteraria fantasy per “young adult”.
Ebbene, niente paura: le “regole” del caso sono state tutte rispettate. I meccanismi atti a catturare l’attenzione del target di riferimento sono al loro sacro posto, solo appena opportunamente shakerati per rivestire con lo sfavillio della novità la confezione, la quale attinge a piene mani da un immaginario dark ovviamente edulcorato e piegato alle note logiche commerciali.
Niente di nuovo, e la cosa in sé ormai quasi neppure infastidisce né tanto meno sorprende, così come non costituisce la causa principale dello stato di stordente perplessità che regala la visione del film.
Certo, già ad irritare per tempo concorrono diversi fattori. Intanto il riciclo di elementi del genere, che perlopiù è sciatto e senza particolari vergogne: capita così di vedere tra le armi dei bei cacciatori di demoni un aggeggio buono per ogni evenienza che ricorda immediatamente il fantasmagorico cacciavite sonico del Dottore (Doctor Who), per non parlare del solito portale che può portare ovunque si desideri, o della presenza massiccia di mostri d’ogni sorta (tranne gli zombie, che chissà perché “non esistono”), per finire con la lieta risoluzione che corrisponde all’ennesima consapevolezza di sé e dei propri poteri e responsabilità.
Pienamente conformi anche gli aspetti che riguardano la psicologia dei personaggi e la (odiosa) componente sentimentale. La protagonista è il classico esempio di individuo catapultato all’improvviso in un mondo e in un passato prima sconosciuti e invisibili (in tutti i sensi), e, dopo l’iniziale sconcerto, troverà forze e facoltà che le permetteranno di fare la cosa giusta. Poi, come da contratto, è la solita eroina gatta morta circondata da maschietti pronti a tutto.
Sì, il triangolo sì, è stato considerato e messo in opera. Quindi sospiri, baci a fior di labbra, ostacoli vari, piccole invidie, grandi rancori, e lui che ama lei che però ama l’altro. Nonostante - e questa è una delle tante ardite zampate che lasciano un po’ così - si cerchi di camuffare il tutto con la sorpresona dalle tinte incestuose.
No, alla trovata in stile Beautiful, non ci crede nessuno.
E quasi non ci si crede al look dei figuri in campo, prestanti modelli nerovestiti ricoperti di tatuaggi “utili” e copiose passate di gel casomai la chioma si scomponesse da un’azione all’altra. Dark, come si diceva, ma di quelli buoni e non “deprimenti” (come qualche band anni ottanta) o “pericolosi” (del tipo sinistre formazioni black metal). Immagine che si riflette nelle atmosfere piuttosto scure di scenografie e fotografia monotone sebbene eseguite con la consueta professionalità tipica di produzioni come questa.
Insomma, dal tradizionale carrozzone per giovani e caste menti, trainato per intrattenere in maniera innocua e garantita, nessuna azione di disturbo è permessa, con l’ironia che boccheggia tanto è soffocata (poiché affidata a una manciata di veloci inutili battutine) e con l’anima salva da qualsiasi anche vaga toccata e fuga [la citazione non è casuale poiché si accenna alla musica di Bach come metodo per scoprire i demoni ed inoltre lo stesso Bach sarebbe stato un cacciatore di demoni!] del politicamente scorretto o del potenzialmente dannoso, come dimostrano anche i cautissimi riferimenti religiosi in modalità “larghe intese”.
Quello che in definitiva affossa il film, che pure ad un certo punto pareva risollevarsi in una posizione almeno un minimo atipica, è il finale, frutto assurdo di un’affannosa ansiogena e cieca ricerca di distaccarsi dai binari di una linea risaputa e prevedibile, colma di stereotipi e situazioni note (fatto che quasi si “accetta”, comunque) e dalla volontà di stupire a tutti i costi. Così la struttura narrativa collassa sotto i colpi disordinati di una serie incredibile di “rivelazioni” e momenti-sorpresa che, anziché ottenere l’effetto desiderato, inducono una sospensione della voglia di seguire quello che accade sullo schermo e soprattutto causano una caotica e sconnessa distribuzione degli eventi.
Si spende quindi male, molto male, quella che è una conclusione con troppi segnali che non conducono da nessuna parte decente, e che in aggiunta è priva del fascino da esaltazione della vittoria, di un cattivo determinante, e innanzitutto di senso e logica.
Non è sufficiente a giustificare ciò la pur disdicevole condizione “obbligatoria” di lasciare i soliti spiragli aperti in funzione del prosieguo della saga: a fare difetto è proprio la materia, in simpatico progressivo disfacimento, e la gestione della stessa.
Regista e responsabile dell’impresa è il mestierante Harald Zart (La Pantera Rosa 2; The Karate Kid. La leggenda continua; Un corpo da reato), che dirige col pilota automatico e in maniera standardizzata.
Infine, qualche considerazione sul cast che, nel complesso, e chi più chi meno, non va (o può andare) oltre le barriere delle produzioni del genere. La protagonista, Lily Collins, pur non brillando ha almeno il pregio di possedere presenza e faccia non così tipiche, mentre la controparte maschile, Jamie Campbell Bower, fatte salve le virtù di avvenenza che tanto possono soddisfare le platee femminili, sembra essere unicamente interessato a stare perennemente in posa con la sua chioma leonina e il volto contraddistinto da una fissità fastidiosa che ha pochi eguali. Tra i comprimari da segnalare una purtroppo sottoutilizzata Lena Headey (sì, era il ruolo però poteva essere sfruttato meglio), ossia la fantastica Cersei Lannister de Il Trono di Spade, e il cattivo buono per tutte le stagioni Kevin Durand.
Ah, l’altro lato del triangolo, quello sfigato e costretto sempre a fare l’amico, è rappresentato da Robert Shehaan, il mitico Nathan di Misfits, che in un film come questo risulta a dir poco sprecato.
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