Regia di Sherry Hormann vedi scheda film
3096 giorni. Otto anni e mezzo di vita. Ed i più importanti, quelli che vanno dall’infanzia all’adolescenza. Natascha Kampusch li ha vissuti tutti nel peggiore dei modi: chiusa in un angusto scantinato senza luce, segregata ed abusata da un uomo con forti problemi di socializzazione. La ragazza ne è uscita viva, poco dopo essere diventata maggiorenne, il suo carceriere no. La storia, iniziata la mattina del 2 marzo 1998 col rapimento della piccola Natascha sulla via della scuola, termina il 26 agosto 2006, quando a lei, ormai donna, capita inaspettatamente l’occasione di fuggire dalla casa dell’orco. In realtà se ne era già allontanata, in varie circostanze, per andare in città a fare shopping oppure in montagna a sciare; ma lui era sempre presente, e qualcosa – in parte la sfortuna, in parte un’anomala sorta di dipendenza – le aveva, ogni volta, impedito di approfittarne per riconquistare la libertà. Certo, a frenarla deve essere intervenuta la paura di mettersi nei guai, oltre alla consapevolezza di essere sola di fronte a un mondo che non era in grado di vederla e di riconoscerla: Wolfgang Priklolil le aveva costruito intorno una gabbia, un microcosmo di terrore e sottomissione all’esterno del quale non sembrava esserci nulla per lei, se non cecità e indifferenza. Il film di Sherry Hormann, tratto dall’omonimo romanzo autobiografico della stessa Kampusch, descrive l’inferno dall’interno di quella villetta, dal sotterraneo in cui la ragazza trascorreva la maggior parte del tempo, dalla cucina in cui doveva fare da cuoca e da sguattera, dalla camera da letto dove le toccava subire le morbose attenzioni del suo rapitore. Fame, umiliazioni, percosse, violenze sessuali. La vicenda apparentemente non ha senso, eppure possiede una sua terrificante logica, che rende il carnefice sempre più spietato, in quanto privo di nemici, e la vittima sempre più docile, in quanto priva di alternative. Disperazione è non sapere come sottrarsi a quella spirale di abbrutimento, ed ignorare come andrà a finire. Adattabilità, per contro, è la salvezza di chi non ha scelta, ed, essendo tenuto prigioniero in condizioni disumane, per sopravvivere deve cercare, se non altro, di non odiare se stesso, in modo da poter trovare pace e rifugio almeno dentro la propria coscienza. Natascha è costretta a stipulare un atroce compromesso con il paradosso di avere, come unico punto di riferimento ed unica fonte di sostentamento, un individuo che le sottrae l’aria vitale e la sua dignità di persona. Wolfgang la vuole tutta per sé, e dunque fa in maniera che Natascha non possa fare a meno di lui, che lo debba implorare per avere il cibo, che debba obbedire per non essere picchiata. In questo nodo di mania possessiva, delirio emozionale ed eroica rassegnazione, si concentra tutta l’inestricabile complessità di un racconto che sullo schermo non può, per sua natura, spiegare la sua criticità con lo strumento del dialogo, né illustrarla con una molteplicità di situazioni riprese da diverse angolazioni. Il male è racchiuso dentro un rapporto di coppia che esclude la volontà e il sentimento per abbracciare la follia e l’istinto, lasciandosi legare dai loro lacci di crudele primitività. La sostanza del film è ruvida, grezza e soffocante come una corda stretta intorno al collo: eppure la forma rimane ingenuamente semplice, con i toni ammorbiditi da un alone di innocenza che ha resistito, tenacemente, all’evidenza quotidiana di una realtà mostruosa.
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