Regia di Pupi Avati vedi scheda film
Potremmo chiamarlo “Avati Touch”, ma forse è più intrigante il termine “avatismo”. Cos’è l’avatismo? È un mistero. O meglio, è una cosa talmente evidente da essere inspiegabile. Un film di Avati si riconosce subito: i (mezzi)toni, le (mezze) luci, il ritmo (medio), i temi, un registro medio insomma. Un autore, magari un autore minore in fin dei conti, ma un autore vero, totale. Se, nell’arco di quarant’anni di carriera, ha commesso errori, come dire, ha sbagliato da solo proprio per via di questo completo controllo dell’opera. Qual è il principale peccato della filmografia di Avati? Presto detto: la ripetitività. Tanto è vero che i film “in costume” di Avati possono essere visti, previa riorganizzazione cronologica, come una sorta di piccola commedia umana piccolo-borghese con derive sentimentali in un contesto orgogliosamente provinciale, quanto è altrettanto vero che, alla lunga, s’avvertono noia, stanchezza, mancanza di cose da dire. Ma in fondo il discorso si può ribaltare: è la ripetizione, il cinema che ripete sempre se stesso perché tutto ciò che si poteva dire, vedere, sentire è stato detto, visto, sentito. Avati è dentro questa intercapedine che lo rende consapevole della propria poetica e infine intrappolato nella sua eterna duplicazione (quanti ricordi devono essere ancora ricordati?).
Un matrimonio è un punto d’arrivo: cinquant’anni di storia d’amore tra la proletaria Francesca Osti, figlia di operaio socialista e casalinga cattolica, e il borghese Carlo Dagnini, rampollo di un camiciaio spendaccione. Seicento minuti (sei puntate) di spericolato e spudorato trionfo dell’avatismo più dichiaratamente autobiografico, apoteosi di tutti i pregi e tutti i difetti del regista di Bologna, affresco ipertrofico di cose perdute recuperate con gusto gozzaniano, generosissima e commossa cavalcata mansueta nella recente storia dell’Italia vista dalla provincia attraverso le storie di una famiglia come tante. Conservatore finché si vuole, Avati ha un’idea di storia ben precisa che non riesce a sviluppare meravigliosamente per due motivi fondamentalmente: da una parte non riesce sempre a gestire i troppi personaggi (pare siano duecentocinquanta!), e non sarebbe stato male rinunciare a qualche ritrattino al fine di favorire una maggiore organicità, dato che troppe figurine si perdono per strada, pochi restano davvero nella memoria, molti sono evitabili, come se l’abbondanza di personaggi fronteggi l’esigenza di riempire sei puntate; dall’altra non calibra benissimo i tempi, non evitando una certa prolissità nelle prime due o tre puntate, prive di reale mordente, e caricando le ultime di troppi eventi, e forse anche questo è un problema legato alla necessità di dare ad ogni puntata una ragione d’esistere (in sintesi: la prima è sull’innamoramento; la seconda è sul matrimonio; la terza è sui figli; la quarta è sul boom; la quinta è sugli anni settanta; la sesta è sulla maturità).
Ulteriore problema, poi, è la costante impressione di essere di fronte a qualcosa di già visto altre volte nei film di Avati, personaggi che abbiamo già incontrato, situazioni già vissute (a mia memoria, mi vengono in mente connessioni palesissime soprattutto con Dichiarazioni d’amore e Gli amici del Bar Margherita). Allo stesso tempo, l’idea che faccia sempre lo stesso film si indebolisce di fronte ad una messinscena pulitissima, priva di sbavature, estremamente professionali, benché il mezzo televisivo gli imponga un ritmo più dilatato rispetto ai film per il cinema. Considerando la media della fiction popolare di Raiuno (in particolar modo le soporifere fiction “ecclesiastiche”), Un matrimonio è perlomeno un prodotto così ben fatto tecnicamente anche non condividendo l’impianto ideologico, fieramente tradizionalista, di un autore che uno splendido gusto del racconto.
La (troppo?) bella coppia di protagonisti è formata da Micaela Ramazzotti alla prova del divismo nazionalpopolare e da un Flavio Parenti non all’altezza di un ruolo che deve far vivere dai venti ai settant’anni. Il coro di personaggi secondari è sterminato, ma citiamo, tra i migliori, un’ottima Valeria Fabrizi e un finissimo Andrea Roncato (notare la scena, a tavola, in cui lei capisce che lui è malato senza dire una parola, una cosa che raramente riesce nella nostra didascalissima fiction), ma anche la petulante zia centenaria di Gisella Sofio, il cognato scroccone Andrea Santonastaso, una sofferta Mariella Valentini e un grande Christian De Sica che appare in una sola puntata lasciando il segno (in un ruolo che quarant’anni fa avrebbe fatto il suo babbo). Tre note: al netto di una ricostruzione filologica degli ambienti, compare impropriamente un manifesto dedicato a Maurizio Cevenini, amatissimo politico bolognese suicidatosi nel 2012; il product placement è fin troppo invadente (il triplo concentrato Mutti, il prosecco Canella, il cocktail Bellini); quant’è bella Bologna se ci sta Avati dietro la macchina da presa.
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