Regia di Rupert Everett vedi scheda film
Protagonista di una rivoluzione culturale che ha segnato un limite passando sulla sua pelle, Oscar Wilde ha indicato la strada. Dopo di lui la lotta è stata dura e ancora continua, ma l’eco delle battaglie si fa sempre più fievole, il diritto ad essere sé stessi si afferma, lui ha posto il problema, il tempo gli sta dando ragione.
Alta sulla città, in cima ad un’imponente colonna, si ergeva la statua del Principe Felice. Lui era tutto coperto di sottili foglie d’oro finto, come occhi aveva due zaffiri lucenti, e un grande rubino rossi scintillava sull’elsa della sua spada. E veramente era ammiratissimo.
“Portami le due cose più preziose della città” disse Dio a uno dei suoi Angeli; e l’Angelo gli portò il cuore di piombo e l’uccello morto.“Hai scelto bene” disse Dio “perché nel mio giardino del Paradiso questo uccellino canterà per sempre, e nella mia città d’oro il Principe Felice pronuncerà le mie lodi.”
Termina così la lunga fiaba del Principe felice.
Oscar Fingal O'Flaherty Wills Wilde amava raccontare fiabe, The happy prince and other tales (1888) e A house of pomegranates (1891) raccolgono quelle che aveva dedicato ai due figli, amati come ogni buon padre può amare i figli. Compaiono in flashback nel film come la dolce Costance, la moglie, non sono il passato da cancellare, occupano un posto importante nella sua vita se la memoria li evoca con nostalgia struggente e l’amore non può per definizione essere un terreno segnato da confini.
Nel 1895, la vicenda di Oscar Wilde è alla fine. Rupert Everett, interprete, sceneggiatore e regista alla sua prima regia, opta per gli ultimi cinque anni di una vita fatta a pezzi dal mondo e forse in parte da sé stesso.
Un lento cupio dissolvi si dilata per tutto il film, fino alla sequenza finale, girata in un giorno acquitrinoso di pioggia scrosciante al Pére Lachaise, il cimitero parigino che conserva le sue spoglie, esule dal suo Paese anche da morto.
Everett si pone sul finale, da lì illumina presente e passato in un ritratto intenso e doloroso dell’uomo,non dell’artista. Wilde rivive con realismo agghiacciante nella dimensione sordida e claustrofobica di quegli ultimi anni parigini, la ricostruzione ambientale predilige toni scuri e fumosi, trasmette angoscia lo squallore degli interni, la pianificazione dei ritmi, in scala sempre ascendente verso la caduta finale, inserisce pause opportune, quasi momenti di dolcezza in una descensio ad inferos in cui la storia della rondine e del principe felice scorre come un basso continuo su cui si adagia la sinfonia funebre.
Wilde era luce, intelligenza, sguardo caustico e leggero sul mondo, affermazione oltre ogni convenzione di pensiero libero. E soprattutto era amore, per il genere umano in generale, e questo ne fece una creatura indifesa.
Lo chiusero per due anni in una lurida prigione con l’accusa di “comportamento sodomita” e lo distrussero come la statua d’oro del Principe felice.
Da lì il suo De profundis:
… Sono senza casa e senza un soldo. Ma c’è di peggio a questo mondo. Sono del tutto sincero quando ti dico che piuttosto di uscire da questa prigione con il cuore amareggiato contro di te o contro il mondo, andrei volentieri di uscio in uscio mendicando il pane. Se non ottenessi nulla dalle case dei ricchi, dalle case dei poveri otterrei certo qualche cosa. Quelli che hanno molto sono spesso avari, quelli che hanno poco sono sempre pronti a spartire. Non mi dispiacerebbe affatto dormire d’estate sull’erba fresca, o quando venisse l’inverno ripararmi contro la tiepida bica coperta di paglia o sotto la tettoia di un vasto fienile, purché ci fosse l’amore nel mio cuore. Le esteriorità della vita mi sembrano adesso del tutto prive di importanza…(De profundis, estratto)
Everett non trascura nulla che indichi il marciume di una vita costretta al degrado: topi scorrazzanti in alberghi di infimo ordine, vomito, sangue infetto, assenzio e squallido sesso a pagamento, la vita di Oscar Wilde divenne questo quando ipocrisia e perbenismo la ridussero sul lastrico.
Le sequenze della miseria, fino alla morte, scorrono in alternanza con quelle che ricordano un passato di gloria e successi ininterrotti.
Amici ne rimasero pochi, solidali fino alla fine almeno impedirono che finisse in una fossa comune, nemici ne collezionò molti, un’intera comunità di benpensanti dediti alla tutela dei valori sacri della condanna sociale del diverso.
Everett decide che la favola del Principe felice meglio di ogni altra metafora rappresenti il senso di una vita in cui tragedia e commedia si sovrapposero, amore e odio, spirito libero e oscurantismo convissero con effetti devastanti nell’impatto reciproco.
Le lamine d’oro che ricoprivano il principe volarono via nel becco della rondinella a donare gioia ai poveri, venne l’inverno e la statua, ormai grigia e senza valore fu destinata al rogo, la rondinella cadde morta per il freddo ai suoi piedi, ma il cuore del Principe, spezzato, era di piombo e non si fuse nel rogo ordinato dal capomastro.
"... Ora trovo nascosto in fondo alla mia natura qualche cosa che mi dice che nel mondo intero niente è privo di significato, e tanto meno la sofferenza. Quel qualche cosa nascosto in fondo alla mia natura, come un tesoro in un campo, è l’umiltà. È l’ultima cosa che mi sia rimasta, e la migliore di tutte; la scoperta finale a cui sono giunto; il punto di partenza per una evoluzione nuova. Mi è giunta dal fondo di me stesso, perciò so che è giunta al momento giusto. Non avrebbe potuto giungere prima, né più tardi. Se qualcuno me ne avesse parlato, l’avrei respinta; se mi fosse stata offerta, l’avrei rifiutata. Ma poiché l’ho trovata voglio tenerla, non posso fare altrimenti. È l’unica cosa che abbia in sé gli elementi della vita, di una nuova vita, di una Vita Nuova per me. Di tutte le cose è la più misteriosa. Non possiamo darla via, e gli altri non possono darla a noi. Non possiamo acquistarla, fuorché cedendo in cambio tutto ciò che abbiamo. Soltanto quando abbiamo perduto tutto, ci accorgiamo dì possederla..." (De profundis, estratto)
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