Regia di Rupert Everett vedi scheda film
The Happy Prince è un’opera prima pienamente riuscita. Il ritratto che Everett dipinge egregiamente si concentra sull’impossibilità dell’uomo (prima che autore) Wilde di sfuggire ai propri vizi e ne cattura efficacemente la sua essenza amletica.
La figura di Oscar Wilde ha sempre affascinato Rupert Everett che, dopo averne indossato i panni più volte a teatro, lo sceglie come soggetto della sua prima regia cinematografica, The Happy Prince. L’attore inglese lo indica come il Gesù Cristo della comunità gay e, in effetti, le associazioni cristologiche non mancano in quest’opera che, non a caso, racconta la vita dello scrittore dalla scarcerazione sino alla morte. Per chiudere l’introduzione, è curioso notare come i parallelismi tra le vite del regista e dello scrittore possano non fermarsi qui: Everett, prima di diventare un attore affermato, era un ragazzo altolocato che si prostituiva a uomini adulti, quindi visse l’altro lato dell’esperienza di Wilde, costretto a pagare la compagnia dei giovani dei boulevards parigini.
The Happy Prince è un’opera prima pienamente riuscita, forte di una scrittura teatrale e classicheggiante che fa dell’ampio uso dei monologhi e degli ottimi interpreti, in costante overacting drammatico, i propri fiori all’occhiello. Everett dietro la macchina da presa stupisce con una regia che, in apparente conflitto con la sceneggiatura, si dimostra estremamente virtuosista: attraverso una sapiente gestione dei piani spaziali e temporali, il regista interseca e raccorda a suo piacimento i vari episodi della vicenda, tra presente e reminiscenze, in modo da indirizzare la parabola della vita di Wilde verso un finale rivelato allo spettatore già nei primi minuti. L’ottima ricostruzione storica, figlia di una grande attenzione per i dettagli ambientali, dà letteralmente vita alla messinscena: si respira la Belle Époque, in tutte le sue contraddizioni. Il sapiente uso delle musiche, drammatico e simbolico, le rende spesso veicoli di significato e dona all’opera un’atmosfera onirica e crepuscolare, in accordo con il mondo interiore del protagonista, sempre più instabile ed allucinato.
Infatti il più grande merito di questo The Happy Prince è di non limitarsi a semplice agiografia: il ritratto che Everett dipinge egregiamente si concentra sull’impossibilità dell’uomo (prima che autore) Wilde di sfuggire ai propri vizi e ne cattura efficacemente la sua essenza amletica. The Happy Prince è la tragedia di un uomo consapevole dei propri errori, ma anche conscio di non poter fare a meno di peccare.
“Perché l’uomo corre verso la rovina, perché la rovina lo affascina tanto?”
Come già detto, quest’opera assume senza dubbio una valenza quasi autobiografica per l’attore e regista britannico, il quale assolve giustamente il protagonista da quelle che all’epoca venivano considerate perversioni, ma non desiste dall’esplorarne la psiche contraddittoria, guardando forse anche al leopardesco Il giovane favoloso di Martone per la sequenza del Vesuvio, quindi demitizzandolo sul letto di morte, nel proprio vomito, distrutto dal rammarico di non aver potuto essere un uomo migliore per chi, in vita, lo ha amato veramente.
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