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Still Life

Regia di Uberto Pasolini vedi scheda film

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La recensione su Still Life

di ROTOTOM
8 stelle

Premio alla regia della sezione Orizzonti alla 70 Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, Still Life di Uberto Pasolini è un piccolo gioiello di intelligenza e poesia che tratta un tema delicato, quella della morte, non sempre affrontato con sensibilità.  Parlando di morte è facile  scadere nel patetismo o erompere  verso la farsa esorcizzante.  Il film di Pasolini invece rimane in equilibrio perfetto tra tragedia e commedia grazie anche ad un interprete, l’inglese Eddie Marsan, di straordinaria bravura, una sceneggiatura scandita con il metronomo e una regia asciutta, essenziale ma allo stesso tempo ricca di suggestioni e stile.



May. Il cognome del protagonista, John May. Che in inglese significa “potere”. Potrebbe, John May? Potrebbe vivere o lasciarsi vivere? John è invece il nome più comune – che trasuda un retrogusto di “banale” - .  Potrebbe quindi l’uomo comune avere diritto ad una vita diversa da quella che fa. Ma John May non è Fanzozzi, non è uno sfigato. Questo omino maniacale, puntuale e rigoroso, - notare come si resta sorpresi dalle accezioni negative che sublimano da questi aggettivi  - forse noioso direbbero i più, dallo sguardo profondo e compassionevole, curioso e intelligente oltre le apparenze, ha qualcosa che altri hanno perso. La consapevolezza del proprio ruolo, la dignità, il rispetto. La memoria.



John May è un impiegato di un piccolo comune inglese, sepolto vivo nell’ufficio e che si occupa di trovare i parenti degli sfortunati che muoiono da soli, dimenticati o rifiutati dal resto del mondo. Quando il suo reparto – composto da egli stesso e basta – viene ridimensionato (ovvero licenziato in tronco)  si adopera per trovare i parenti del suo ultimo caso, quello di un poveraccio sconosciuto a tutti che abitava proprio di fronte alla sua finestra. Invisibile.



Come può essere invisibile un uomo? Perdersi nelle pieghe di una società distorta smarrendo sulla strada dell’esistenza manciate di particelle, blocchi di elettroni, evaporando dal mondo fino a rendersi invisibile. Trasparente in un mondo di fantasmi che si passano attraverso l’un l’altro senza sfiorarsi. L’impressione è di essere già morti, nella società contemporanea e il corpo è il semplice fardello da tirarsi appresso, finchè non cede.



Still life, natura morta, è un film profondamente laico ma che scava nell’animo umano in cerca di un briciolo di miracolo. Mostra l’anima delle persone, quell’essenza evanescente che è il motore di tutta un’esistenza e che rende necessaria l’esistenza stessa. La ferma nelle foto che John May, con fare religioso – ma umanista- , conserva in un grimorio, tra una fetta di pane bruciacchiata e una scatoletta di tonno, feticci della solitudine. L’anima è la memoria che alberga nelle persone che hanno incrociato gli uomini invisibili e anche solo per un attimo si sono accorti della loro presenza, il ricordo tramandato dai vivi è l’anima dei morti. 



John May quindi attraversa il quadro geometrico imposto da Pasolini, le inquadrature simmetriche, la pulizia formale dello sguardo. Lo attraversa alla ricerca dell’anima che risiede nella memoria degli uomini e si installa, latente, nei loro cuori. Si riconosce in quelle persone – non solo corpi ormai destinati alla purificazione del fuoco – come specchio del suo futuro, egli stesso solitario e destinato all’oblio.



Dramma con di sprazzi di commedia, sottile nervatura che scintilla dalla sguardo eterno di Eddie Marsan, magnifico attore capace di lavorare in sottrazione ma esplodendo sullo schermo per  intensità emotiva, in pieno assonanza alla regia di Pasolini, il quale replica il rigore morale del protagonista con il rigore formale della messa in scena.



Le chiavi di lettura si moltiplicano seguendo la vicenda di John May, in ogni inquadratura il senso del film si stratifica di significati .
Esiste l’aspetto sociale del lavoro al tempo della crisi che considera gli esseri umani zavorre da rimuovere, in questo contesto  la solitudine nella quale versano quasi tutti i protagonisti è direttamente conseguente ad un’amoralità diffusa che se finisce con l’ignorare i morti – che hanno attraversato comunque un’esistenza  degna di essere ricordata – ma inizia con i vivi.
Altrettanto importante l’aspetto laico dell’approccio alla vicenda. Nessuna concessione viene fatta ad un qualsiasi riferimento religioso se non nelle surreali, solitarie omelie, scritte da John May per corredare il defunto di una parvenza di ricordo e quindi, di un’anima.  
Essenziale è il viaggio, il road movie esistenziale e un po’ buffo che John May intraprende per scovare i parenti del morto, che sente talmente affine a sé da avvertirlo come un amico. Il movimento, messo in contrasto con l’immobile e ordinata vita di May è metafora di un cambiamento di stato nel quale la vita sboccia per poi appassire subito. Ma quell’ultimo momento, quella della soglia sulle labbra del protagonista fiorisce di una consapevolezza mai provata prima. Ne valeva la pena.



Finale spericolato,  si ferma sull’orlo della retorica per dare il giusto premio al coraggioso, piccolo, John May che ha dedicato a ricordare le vite degli altri senza chiedere nulla se non , in cuor suo, di essere ricordato. Ma funziona, eccome e stringe nelle viscere di chi assiste il languore acido di una domanda la cui eco della risposta spesso giace soffocata nella più profonda delle intimità : ne vale la pena?

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