Regia di Andrés G. Schaer vedi scheda film
Bianco, e tenerissimo. In catalano si chiamava Floquet de Neu ed è veramente esistito: l’unico gorilla albino mai visto dall’uomo, catturato nel 1964 in una foresta della Guinea Equatoriale, poi venduto, e quindi approdato allo zoo di Barcellona, dove passò tutto il resto della sua vita, fino alla morte avvenuta nel novembre del 2003. Da cucciolo era un’attrazione paragonabile a quella dell’orsetto Knut, ed è in tale veste che il regista Andrés G. Schaer lo ritrae: un piccolo pupazzo morbido, che i bambini corrono a vedere mentre si esibisce in acrobatiche evoluzioni. Una di loro, Paula, gli è particolarmente affezionata: è la figlia dello zoologo che lo ha portato in Spagna, e che, nella finzione, lo ospita in casa propria per i primi cinque mesi, onde consentirgli di riadattarsi al nuovo ambiente, dopo il brusco allontanamento dalla sua terra d’origine. Il film inizia così, con il trauma della separazione, che, insieme al dramma della diversità, sarà il filo conduttore di tutta la storia. C’è chi è discriminato dai suoi simili perché ha il pelo del colore sbagliato, e chi, sul versante opposto, è trattato come un appestato per il fatto di essere crudelmente perseguitato dalla sfortuna: è il caso di Luc de Sac, abitante nella via Cul de Sac, che è il cattivo di turno, e vorrebbe impadronirsi del cuore del gorilla per farne un amuleto in grado di renderlo per sempre immune dalla malasorte. Questa vicenda disneyana alla maniera de La carica dei 101 si avvale del collaudato (e forse ormai logoro) espediente della sovrapposizione tra live action e animazione: la ben nota tecnica mista, che, qui, però, si astiene da ogni virtuosismo, per limitarsi a sfruttare le potenzialità espressive del disegno animato. Questo pregio di semplicità va ad aggiungersi alla dinamica linearità del racconto, caratterizzata da un’azione fluida ed avvincente, senza digressioni coreografiche né innaturali accelerazioni. Il racconto aderisce ai ritmi della realtà, concedendo alla fantasia soltanto quei picchi di romanticismo o di follia che servono a mettere in luce i sentimenti oppure i grotteschi effetti della loro mancanza. La presentazione dell’amore come valore universale, che unisce in un abbraccio l’intero regno animale, ha bisogno di donare a tutte le specie la dignità della persona umana: mentre, d’altro canto, l’onnipresenza del male si deve manifestare in una miopia che, in ogni essere vivente, si esprime con gli stessi sconsiderati attacchi di cinismo. Uomini, scimmie e panda condividono lo stesso linguaggio, anche quando sono innamorati e felici, oppure, al contrario, accecati dai pregiudizi, afflitti dalla disgrazia, schiavi delle loro manie. La fauna è varia ma accomunata dalle stesse debolezze: la visione è antica, ma non per questo smette di commuoverci, forte del potere spiazzante dei sogni infantili. Qui la ritroviamo nella consueta forma di favola a lieto fine, nella quale le anime dei buoni sono attraversate da emozioni intense, prime fra tutte la disperazione e il terrore, che forniscono le premesse per un’eroica rinascita da ogni ingiusta sofferenza. Il messaggio non è nuovo, ma risulta istruttivo senza retorica, perché contiene un esplicito richiamo al coraggio di sfidare le altrui ottuse preclusioni, difendendo la propria libertà di essere se stessi. Le avventure di Fiocco di Neve racchiude un’anima moraleggiante di sapore un po’ rétro, e la esibisce rinunciando ai rivestimenti giocosi, per metterne a nudo l’idea fondante: tutti siamo uguali nel modo in cui ci distinguiamo dagli altri, ognuno con la propria razione di peculiarità che lo rende unico. È importante ribadirlo. Anche sacrificando le suggestioni esotiche che, a suo tempo, ci avevano affascinato in classici come Il Libro della Giungla e Il Re Leone, e che avremmo giurato di poter ritrovare in questo film. In ciò rimaniamo delusi. Ma il dispiacere, tutto sommato, è lieve.
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