Regia di Spike Lee vedi scheda film
Qualcuno ricorderà la citazione impressa sulle locandine e nel trailer dell'originale film coreano: "il film che avrei voluto fare" a firma Q.Tarantino. Invece dieci anni dopo, è Spike Lee ad impadronirsi del remake, un cineasta un tempo alternativo, di denuncia sociale e di rottura che progressivamente ha smacchiato il suo stile in favore di un cinema più globale, meno settario nei temi trattati, condotto con mano professionale e sguardo certamente più integrato con il sistema. Riprendere in mano uno script così netto nei suoi contorni sembra che sottolinei se non una mancanza di idee nuove, il proseguimento di una fase di rinnovamento del regista che non trova ancora una direzione più stabile. Se calandosi nel film di genere, con Inside man(2006) ha rappresentato forse una lodevole eccezione, il successivo polpettone di guerra Miracolo a Sant'Anna (2008) ha invece sollevato più di una perplessità. La trasposizione made in Usa del piccolo capolavoro di un capitolo della trilogia di Park Chan wook non può che essere oltre che un azzardo, un'inutilità. L'unica lettura possibile che ne consenta una visione accettabile e rilassata è quella di ignorare la fonte originale, o meglio di non avere proprio visto il film coreano. Pensarlo come un prodotto di riciclo, di un genere preciso, il film d'azione, per un pubblico mainstream che un lasso di tempo lungo dieci anni ha rinnovato e centrifugato nel nome di un gusto e un'attenzione sempre più indirizzata al basso profilo, al semplice intrattenimento scaccia noia utile a riempire il proprio tempo libero. Un uomo riconquista la libertà, dopo essere stato segregato in una stanza per vent'anni senza saperne il motivo e chi lo avesse rinchiuso. Cercherà di scoprire la verità, la vendetta assumerà una fisionomia molteplice e inaspettata. Spike Lee utilizza tutti gli stereotipi di genere, infarcisce le scene (le stesse dell'altro) con i simboli e i feticci della società occidentale senza però contaminare una storia che identifichi meglio il protagonista oltre che il suo clichè socio economico fin troppo definito dalla cultura ufficiale, diviso fra il pop e lo yuppie fallito ma estremamente allineato con l'ambito sociale. Che ne venga fuori un prodotto anche discretamente confezionato e godibile significa galleggiare nell'ordinarietà per un regista come Spike Lee in grado di "fare la cosa giusta" ma in questo Old boy a stelle e strisce non si va proprio oltre. Ritmi emotivi e vertiginosi che elevino l'adrenalina non se ne vedono, ma soprattutto, e qui non ci si può non riferire all'originale, l'ironia, il sarcasmo, lo sguardo poetico e lacerato che inflaziona la presa di co(no)scienza del protagonista di Park, viene proprio a mancare, togliendo quel respiro enfatico che invece trasmetteva. Probabilmente il regista americano non è interessato a queste caratteristiche facendosi più ingabbiare dal rispetto della storia che peraltro nella sua versione è molto più prevedibile e rivelatrice già dopo qualche sequenza, la dose garantita di violenza è abbondante, la vendetta sarà tale senza essere un'ellittica revisione interna del protagonista, ma le emozioni e i sentimenti sono immobilizzati. Eppure Spike un tempo ci riusciva anche solo con le inquadrature fotografiche di Lola darling (il suo apprezzato esordio). Così non ci sono più volti da scrutare, sguardi da soppesare, l'azione fine a se stessa deve arrivare fino ad un fondo dove però non c'è nient'altro.
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