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Effetto paradosso

Regia di Carlo Fenizi vedi scheda film

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La recensione su Effetto paradosso

di (spopola) 1726792
6 stelle

Effetto paradosso  è la seconda fatica registica di un giovane debuttante di indubbio talento non ancora trentenne come Carlo Fenizi (è nato nel 1985) che dopo aver conseguito una laurea in Lettere e Filosofia alla Sapienza di Roma, ha successivamente fatto un formativo e fruttuoso apprendistato cinematografico frequentando con successo e dedizione proprio qui a Firenze il corso di regia presso la scuola di cinema “Imagina”.
Credo che si possa impropriamente parlare di un vero e proprio debutto proprio riferendosi a questa pellicola perché della sua prima prova che risale al 2008 (mi riferisco a La luce dell’ombra) sono rimaste davvero poche tracce (si potrebbe dire che in pratica non è stata vista da nessuno o quasi, a conferma del termometro “oscurantista” che emargina rendendola “invisibile” una buona fetta di nuove e interessanti proposte fatte da autori che non si piegano alla omologazione del mercato e per questo non trovano alcuno spazio di visibilità e di confronto nel panorama sempre più asfittico e ripetitivo della nostra distribuzione “alla deriva”).
Al di là infatti di alcuni dei nostri nomi più prestigiosi che fortunatamente abbiamo ancora (che comunque fanno ugualmente fatica a districarsi e a imporre i loro progetti e  sono comunque sempre più spesso costretti ad adeguarsi per scelte e opzione di rappresentazione, a parecchi dictat del nostro fatiscente duopolio – Rai e Medusa/Mediset - senza l’aiuto dei quali sembra che sia sempre più difficile riuscire ad ottenere i necessari finanziamenti obbligatoriamente indispensabili per far partire la produzione), per il resto è buio pesto e ci si deve arrangiare come si può, perché purtroppo l’interesse di chi elargisce i fondi – compreso il credito d’imposta - è esclusivamente orientato a supportare  la ripetitività di proposte che si ritiene possano incassare parecchio (anche se non sempre accade), ma che non fanno certamente un buon servizio al cinema delle idee e della qualità.
Con molti sforzi anche personali, si arriva comunque più spesso di quanto non si possa immaginare, a realizzare a basso costo qualcosa di interessante riportando alla luce anche i “generi” una volta fiorenti e ora invece colpevolmente dimenticati (perché anche la commedia si è tramutata in “farsa”), ma poi la strozzatura, il collo di bottiglia, arriva di nuovo dalla censura della distribuzione poiché anche se qualche piccola etichetta  decide di rischiare e compra qualche titolo per metterlo in listino, poi mancano le sale disposte a programmarlo (e nel 2014 quando tutto sarà digitalizzato e niente più realizzato anche in pellicola, andrà davvero molto peggio perché si prevede una chiusura ulteriore con percentuali da far rabbrividire di quelle monosale cittadine che ancora rappresentano l’unico spazio possibile per questi tentativi di autonomia così pesantemente “fustigati”).
Un grido di dolore insomma che nessuno è interessato a raccogliere  per trovare adeguate soluzioni (vedi il Mullholland Drive scritto da Filippo Mazzarella in “Visioni dal fondo” del penultimo numero  di Film Tv cartaceo e il pezzo di apertura scritto da Mauro Gervasini che lascia davvero poco spazio alle illusioni, pubblicato ne “I cancelli del cielo” del successivo numero della rivista in edicola proprio questa settimana).
Per la verità non è che a Effetto paradosso sia stata riservata una sorte migliore (semmai un tantino meno infausta, visto che almeno un minimo di circolazione anche se proprio col contagocce l’ha avuta, da “attimo fuggente” insomma, e come tale, da cogliere al volo, perchè se perdi quella sera in cui è prevista la sua programmazione, poi rischi seriamente di non “acchiapparla” più) di quella che è stata riservata – e lo ribadisco – alla sua precedente fatica (La luce dell’ombra, appunto), un piccolissimo film con sfumature tematiche e formali di umile e dichiarata ispirazione felliniana (realizzata con qualche buona idea e fondi insufficienti) che voleva essere un sentito omaggio al teatro, alle tradizioni e alle contraddizioni dell’essenza meridionale, ai dialetti garganici e a un musical come “ The Rochy Horror Picture Show”, talmente  misconosciuta da non avere nemmeno una scheda qui sul sito. Il risultato – come ho già fatto intendere - era ovviamente poco più che amatoriale, anche per l’acerbità dei suoi attori protagonisti, certamente volonterosi (ma per un progetto tanto  ambizioso, come si può capire, ci sarebbe voluto ben altro): lodevoli intenzioni insomma che al di là dei risultati pratici, mostravano già e in positivo, già un interessante distacco da una modalità di cinema mainstream spesso inerte e priva di sussulti, oltre che di idee come quella che viene programmata prioritariamente appunto (e mi riferisco in particolar modo ai cinepanettoni e alle opere  dei “miracolati” dalla nostra televisione  –  soprattutto quei “comici” o presunti tali  che vanno per la maggiore ma che col cinema vero c’entrano come il cavolo a merenda – oltre che a tutti quei filoni giovanilistici di derivazione mocciana).
Quello che è sicuro, è che a Fenizi non manca certo il coraggio e l’ambizione di chi, seppure con mezzi risicati, prova a fare un “cinema altro” e decide di seguire un percorso rischioso e tutt’altro che privo di ostacoli ma che presenta inusuali, importanti e singolari sprazzi di novità (a partire dall’insolita tematica del fiabesco/fantastico davvero poco frequentata dal nostro cinema, e che a questo punto sembra davvero essere quella che lui predilige, fino a farla diventare il suo prezioso “asso nella manica”).
Ovviamente non siamo dalle parti di Grassadonia e Piazza (anche il loro Salvo comunque è arrivato alla distribuzione in sala quasi per miracolo e solo grazie al successo e ai riconoscimenti ufficiali che ha ricevuto a partire dal premio Solinas per la sceneggiatura aggiudicatosi nel 2008, e quindi  quando il “sistema obsoleto” del nostro “pianeta cinema” non poteva davvero più continuare ad ignorarlo, il che ha fatto dichiarare a uno dei due coraggiosi produttori, Massimo Cristaldi, a conferma di quanto anche io ho già esposto sopra, che “chi detiene il potere economico nel nostro cinema persegue una politica economico-editoriale per lo meno curiosa. Magari invece di investire solo in presunti successi commerciali, potrebbe fare una commedia in meno e con gli stessi soldi produrre – e far distribuire – cinque “Salvo”) o da quelle altrettanto straordinarie e rilevanti de L’intervallodi De Costanzo (un altro Nemo profeta in patria), o di Et in terra paxdi Matteo Botrugno e Daniele Coluccini, tanto per citare i primi esempi che mi vengono in mente.
Se però non ci si confronta col pubblico fruitore (purtroppo anch’esso sempre più latitante per le opere di qualità) mi domando come si possa fare poi a crescere e maturare, a far diventare alla fine eccellente un talento in pectore magari ancora solo un tantino “grezzo”… a rinnovare insomma la nostra cinematografia  che ne avrebbe tanto bisogno (è facile sparare a zero su quello che poi emerge della nostra produzione blasonata ed arriva in sala che è mio avviso  solo la punta di un iceberg che preferisce mantenere nel sommerso opere spesso di pregio indubbiamente superiore, ma che si ritengono “invise” al mercato, una diversa forma di censura più strisciante e subdola di quella di una volta perché ben più difficile da combattere e da “smontare”).
Scusate per questo mio “grido di dolore” introduttivo che ritengo tutt’altro che superfluo però, poiché credo che sia scoraggiante (per non dire avvilente) per un autore vedersi vanificare i suoi sforzi nell’impossibilità di rendersi davvero visibile e di fare di conseguenza (ri)conoscere la propria idea  di cinema (anche – se necessario -  per “migliorarla”, visto che è solo il confronto diretto col pubblico che riesce a fornire il giusto stimolo in questa direzione) che poi se resta troppo a lungo fra le incomprese sacche del sistema,potrebbe con più di una ragione decidere di gettare la spugna per pensare ad altro).
 
Tornando a Effetto paradosso, devo subito dire ci troviamo questa volta di fronte a una curiosa e piacevole fiaba pugliese che il regista (nativo di Foggia) ha girato a Orsara, e che racconta la storia di Demetra, una giovane donna che conduce una vita grigia e monotona interamente votata al suo lavoro di ingegnere a cui si dedica  “con l’anima e con il corpo” come si dice in genere in questi casi, e senza troppe deviazioni volte al privato. Una donna insomma controllata nei desideri e nei movimenti, abituata a tenere tutto sotto controllo senza sgarrare mai, che un giorno, grazie a un nuovo incarico che le viene affidato, si trova all’improvviso catapultata in un’altra dimensione, completamente fuori dal mondo normale (almeno da quello che è stato da lei considerato tale fino a quel momento).
Una inaspettata “avventura” insomma che cambierà per sempre il suo modo di approcciarsi all'esistenza e che la porterà di conseguenza a mettere finalmente in discussione l’arido senso della vita che ha condotto, totalmente priva di sprazzi emozionali, cosa questa che le creerà serie difficoltà di adattamento anche col suo sentire e produrrà il necessario ripensamento generale delle cose non sempre facilissimo da mettere poi in pratica. Un corto circuito anche sensoriale che metterà  duramente alla prova la donna, poiché è la salutare “scossa” che determinerà inesorabilmente l’abbandono progressivo di tutte le certezze acquisite in precedenza, con i turbamenti (e i dubbi) che finalmente  incalzano e l’equilibrio che da stabile si fa sempre più precario e “burrascoso”, sbilanciato ed intrecciato con misteriose, arcaiche coincidenze che finiranno per farla sentire pericolosamente in bilico dentro a una dimensione anomala che la sta mettendo di fronte a una realtà diversa e mai immaginata prima, che la costringe a confrontarsi con misteriose influenze e coincidenza che finiscono per scardinare le convinzioni di un’intera esistenza: chiamata da un piccolo comune del nord della Puglia per eseguire una perizia su un terreno, Demetra dovrebbe infatti inizialmente allontanarsi dal suo guscio protettivo solo per una notte (il tempo strettamente necessario per fare la perizia sul terreno che le è stata richiesta e commissionata). Il viaggio, però, si prolungherà inaspettatamente a causa di  continui e imprevedibili imprevisti che ostacolano il suo lavoro, quasi che si trattasse di un segno del destino, primo fra tutti, la scoperta che su quel terreno da analizzare, nasce e prolifera una pianta spontanea, l’Ipazia, unica al mondo e dai sorprendenti poteri benefici che è anche la base di tutti i prodotti locali.
Si trova così intrappolata dentro la realtà di un paese a suo modo “fatato” che grazie anche a questa sua “anomala specificità”, si presenta come  un microcosmo magico in cui le regole sociali e i rapporti umani sono improntati a modelli decisamente alternativi e fuori da ogni schema (colpa di Ipazia?).
Inizialmente spiazzata, confusa e turbata da ciò che la circonda (si ha sempre paura ad accettare ed adeguarsi a quello che non si conosce), la giovane deve affrontare questa nuova esperienza che se da una parte la stimola, dall’altra la confonde. Ed è a questo punto che l’interrogativo le si impone imperioso: qual’è il senso della vita? Il film naturalmente proverà a dare qualche risposta al quesito, ma non è davvero il caso di anticipare troppo le cose, e si potrà sapere solo se si riesce ad “acchiappare” (e vedere) il film perché io non vado giustamente oltre.
 
Fenizi come ho già detto, ha il pregio di essere molto ambizioso (e qui ne fornisce un esempio davvero consistente): dimostra di conoscere la materia e di avere già un suo stile (anche se da affinare). E’ uno insomma che mira davvero molto in alto, visto che ha i suoi numi tutelari (cosa che si percepisce abbastanza chiaramente) , non solo in Fellini, ma anche in Buñuel e Almódovar che considera a tutti gli effetti  i suoi “maestri” privilegiati, ai quali prova ad approcciarsi.
La sua proposta (per molti versi fortemente “emozionale), ha comunque ancora piccoli scompensi qualche perdonabile ingenuità di fondo. Forse allora il consiglio più giusto che potremmo dargli, è quello di  andarci un po’ più cauto, di ridimensionare insomma almeno in questa prima fase, i suoi obiettivi ed essere meno frettoloso, e soprattutto di scegliere una via più autonoma che eviti riferimenti troppo certi a una triade di autori straordinari come quelli a cui si riferisce, che sono per altro difficilmente assimilabili fra loro se non per alcuni elementi marginali, poiché ciascuno anche nel campo del fantastico e del grottesco, ha una sua particolare visione delle cose, per arrivare alla fine ad affinare anche la forma senza per forza continuare a miscelare insieme troppe differenti  suggestioni  che gli scarsi mezzi disponibili rendono a volte pleonastiche. Di rimanere insomma in fiduciosa attesa e con più prudenza, che qualcuno ai “piani alti” si  accorga del suo talento ancora in erba (ma in progressiva formazione) e gli fornica i mezzi e la fiducia per realizzare un cinema più compiuto (che è poi quello che avrebbe diritto di aspirare) che potrebbe essere il vero banco di prova per giudicarlo meglio e fino in fondo.
Presente alla  proiezione della sua opera al ritrovato cinema Alfieri di Via dell’Ulivo qui a Firenze, Carlo Fenizi ha “raccontato “ anche a voce quella che è la passione fondante delle sue scelte (il cinema è sempre stato per me – sono le sue parole – una frenesia del fare, non tanto del vedere).
Girato “en plein air” (o per meglio dire “en plein soleil”) Effetto paradosso– come già il precedente La luce dell’ombra - si potrebbe definire un cinema  a trazione femminista, ma non si tratta di un film femminista nel termine canonico, anche se sono molto interessato a mettere in primo piano proprio le donne – ci tiene a precisare – perché le donne le guardo, ma con molta ironia e ciò che più mi attrae del pensare femminile, è piuttosto la presenza di una pluralità di punti di vista che spesso manca a quello maschile.
Il suo particolare valore aggiunto comunque (oltre a questa speciale visione delle cose), è quello di aver saputo organizzare un singolare pastiche linguistico sui ruoli e le differenze di sesso davvero molto stimolante, tutto costruito intorno a un trainante (e spesso neurotonico) tappeto ritmico  che ha il suo punto di forza nella pizzicata dei “TerrAnima” a cui è affidato un commento sonoro indovinato e molto affascinante di straordinaria consistenza timbrica.
Fra toni progressisti e tinte forti, il regista riesce così a disegnare e mostrarci un Sud alternativo,custode di remote devozioni e antichi riti, dove la differenza (anche culturale) la fanno proprio le donne, con il loro ineffabile e per più di un verso davvero “indefinibile” intreccio di (in)compatibili dissonanze sospese fra modernità e tradizioni che passa attraverso la libera espressione del corpo e i loro spesso sottesi, quasi magmatici e comunque sempre splendidi sorrisi aperti sul futuro.
Voto di incoraggiamento, ***½

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