Regia di Federico Moccia vedi scheda film
Gli universitari di Federico Moccia abitano in una clinica fatiscente adibita a dimora in nero per studenti. Sono palermitani o iraniani, disintegrati dal principio di realtà. Intrecciano storie con donne sposate che dicono con palpabile disagio «i tuoi messaggini mi riempiono il cuore di gioia». Protestano contro i baroni e si comprano gli esami a botte da 2000 euro l’uno (isolata concessione alla malattia del sistema, istantaneamente curata da un abbraccio che fa passare la famigerata «paura di tutto»). Giocano a maschi contro femmine quando c’è da scegliere il nuovo affittuario, ma nei coinquilini cercano comprensive famiglie surrogate. Sono figli di nessuno, perché non esistono. Sono alieni a Roma e non perché fuori sede: scollati da qualsiasi luogo, anche drammaticamente comune, neppure ci fanno accorgere della città mentre l’attraversano in scooter. Senza frenare quando uno scarto d’emozione potrebbe infilarsi nella soap genitore/figlio. Moccia si fa il film senza partire dal libro e lo scrive con la voce fuori campo di un ventenne aspirante regista che mixa l’ottusità moralizzatrice dello speaker di Radio Caos (Tre metri sopra il cielo) e la tenera & imbarazzante forza del sogno strombazzata dalle ONDE (Scusa ma ti chiamo amore). Oggi più che mai le parole non si sintonizzano su alcuna frequenza: ignaro delle istanze, anche le meno engagé, del suo target, il prodotto mocciano invecchia bruciando senza fiamma la gioventù. Già sfiorita, con qualche sfrigolio, mentre la Quattrociocche mangiava gelsomini sul balcone di Bova.
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