Regia di István Szabó vedi scheda film
István Szabó ha poco più di vent’anni quando realizza il suo primo lungometraggio: una storia di gioventù e di speranze deluse in una delicata fase di transizione politica. L’Ungheria dei primi anni sessanta si è appena lasciata alle spalle lo stalinismo e, con l’ascesa al potere di János Kádár, si appresta ad aprirsi ai mercati occidentali. È così che nasce anche un nuovo cinema, contiguo all’avanguardia francese (vedi la locandina de I 400 colpi di François Truffaut, che compare esplicitamente in una scena del film) e quindi indipendente dalle tradizionali tematiche di regime. L’obiettivo abbandona la composta coralità del socialismo reale per guardare dentro alla dimensione individuale: una girandola di pensieri slegati dalla realtà, e proiettati verso una favola che non ha nome né colore. È la condizione di chi, disorientato dall’ipotesi di una libertà senza punti di riferimento, non trova più la comunanza di intenti con i suoi simili, né, tantomeno, perviene alla formulazione di progetti comuni. I protagonisti della storia, quattro giovani ingegneri elettronici, pur essendo colleghi e condividendo competenze ed interessi, non riescono ad essere veramente uniti. Le loro aspirazioni potrebbero convergere sulla realizzazione di una non meglio precisata invenzione, che viene ripetutamente citata, ma l’iniziativa rimane lettera morta. Intanto c’è chi sogna l’amore, rivestendolo di un ideale in cui il sogno ad occhi aperti è la continuazione di quello indotto dalle immagini televisive. L’oggetto del desiderio di uno dei ragazzi è una neolaureata in legge, che, nella sequenza d’apertura, viene intervistata da un giornalista a proposito dei suoi studi. Un’icona che unisce intelligenza e femminilità, e che insieme affascina e respinge, in virtù di quel paradosso che rompe con gli schemi. Il nuovo è una tentazione che provoca e che incute timore, a causa del suo carattere inafferrabile: i quattro amici continueranno a rincorrerlo invano, perdendo del tempo prezioso, fino ad accorgersi, troppo tardi, che il destino non concede dilazioni. La Storia non è disposta ad aspettarli: ed è proprio Lei, col suo incedere pesante e spietato, il vero avversario con cui fare i conti. È quella l’entità gigantesca che si nasconde dietro i fantocci del presente, quelli che sembrano i nemici da combattere tra oggi e domani, e invece sono soltanto insignificanti ostacoli su un cammino molto più grande. Il muro da abbattere, contrariamente a quanto credono i protagonisti, non è la roccaforte di potere rappresentata dalla mediocre vecchia guardia, bensì la loro stessa irresolutezza: il nemico non è nel mondo esterno, è dentro le loro anime. La realtà avanza senza che loro riescano a metterla a fuoco, inquadrandola con la giusta combinazione di razionale pragmatismo e di trasfigurazione romantica. Così, alla fine, verranno tagliati fuori, e non resterà loro che fuggire o abbandonarsi alla disperazione. Quei ragazzi hanno tanto sognato, perché hanno a lungo dormito. E Il film si conclude con un esplicito invito a svegliarsi. L’età delle illusioni è un manifesto senza proclami, che cancella quelli antichi senza scriverne di nuovi: è una pagina timidamente imbrattata di tristezza, scarabocchiata con l’inchiostro pallido e amaro di un’ispirazione appena intravista, e subito sfumata, dietro un inutile fiume di parole o, meglio, di tentativi di dire qualcosa.
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