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The Exam

Regia di Péter Bergendy vedi scheda film

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La recensione su The Exam

di OGM
6 stelle

Pare lo chiamassero Kadartest. Era la prova alla quale, a partire dalla metà degli anni cinquanta, venivano sottoposti gli agenti dei servizi segreti ungheresi. A loro insaputa, venivano sorvegliati ed intercettati notte e giorno, al fine di verificarne l’efficienza e la fedeltà al regime. Solo se i controlli davano esito positivo, l’ufficiale veniva confermato nell’incarico. In questo film, ad essere spiato è  il giovane Andras Jung, a cui capita l’inconveniente di invaghirsi di una controrivoluzionaria, una ragazza che ha partecipato all’insurrezione del 1956. è questo suo punto debole ad essere oggetto di esame. Il sentimento può aprire una falla nella riservatezza della sua missione, e ciò sarebbe un errore imperdonabile. La storia, attraverso le registrazioni dei microfoni e le testimonianze dirette, ci racconta lo sviluppo di questa vicenda di amore e politica, che si svolge interamente in un angolo di città semideserto ed immerso nella penombra. Nelle riprese notturne, la luce gialla dei lampioni fende l’oscurità creando sfumate macchie di colore incandescente, con un effetto pittorico alla Edward Hopper  che ripropone il fascino dei classici del noir d’oltreoceano. La pregevole suggestione fotografica si posa, tuttavia, su una messa in scena che confonde l’asciuttezza di stile con la mancanza di espressività, e il carattere poliziesco con l’anonima cadenza dei rapporti ufficiali. L’intreccio, per altro non molto articolato, sottintende un dramma che non arriva a manifestarsi esplicitamente: il tono sembra, ad ogni istante, innaturalmente trattenuto dalla paura di dover rendere conto delle proprie emozioni a chi di dovere. Sebbene questa scelta possa certamente essere fatta passare come un’accettabile rappresentazione di un clima di costante oppressione, è pur vero che l’assenza di spontaneità coincide con una levigatura formale troppo funzionale alla definizione del ruolo dei personaggi nel sistema, e quasi del tutto incompatibile con l’esigenza di caratterizzarli psicologicamente. Quello che ci sfila davanti agli occhi ha l’aspetto di un piccolo mondo di robot: esseri senza passato, macchine i cui meccanismi possono incepparsi, ma che non conoscono quella violenta esplosione della volontà che si chiama ribellione. Ogni azione, anche la vendetta, passa attraverso l’impersonale registro del protocollo, che sbatte fuori dalla porta tutte le sfumature dell’umanità.  Un film potenzialmente penetrante – che pone al centro del racconto la segretezza come condizione che uccide la libertà – rimane quindi fermo all’enunciazione di una logica a due valori (amico e nemico, sincerità e menzogna) che, curiosamente, non riesce a produrre dilemmi degni di nota. I protagonisti paiono eccessivamente impegnati a rincorrersi per prendersi alle spalle ed ingannarsi vicendevolmente, tanto da non avere il tempo di riflettere sul senso di quel movimento che spacca il minuto e si morde la coda. All’interno di questo ingranaggio smaccatamente studiato a tavolino, il sotterfugio è un trabocchetto che nasconde una lama a doppio taglio. Vincitori e vinti, onesti e disonesti si scambiano le parti per costringerci a decretare che tutto ciò è vano, ma intanto, loro stessi, dimostrano di crederci ciecamente. A Vizsga  trasforma una realtà crudele, che fa tanto male, in una concatenazione di concetti astratti e innocui: una rassegna di categorie universali che lascia, dietro di sé, la scia di una contraddizione in cui, però, tutti sembrano sentirsi a proprio agio. Quel paradosso agisce, con la forza dell’illusione, come un’arma che ognuno cerca di usare a proprio vantaggio. Le due facce della verità sono maschere brandite come pugnali; ma a noi pare davvero improbabile pensare di girarle rapidamente tra le dita, senza che la coscienza inizi a soffrire, almeno un po’, per il mal di mare.

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