Regia di Paul Schrader vedi scheda film
Un (corto)circuito (meta)filmico abitato da (s)folgoranti manichini in carne plastica e sogni (bruciati), immobili(zzati) in moto catatonico perpetuo dal - e dentro il - nulla glitterato rivestito di celluloide: Paul Schrader e Bret Easton Ellis cantano la putrefazione del pianeta-cinema, sondandone le pieghe spaziotemporali e le piaghe purulente, affondando i metallici strumenti del coscienzioso studioso-analista nelle voragini create dall’illusione che fu. Un’autopsia sul corpo morente: la certificazione dello stato - stagnante, terminale - delle cose è una rappresentazione lunare, glaciale ed essenziale, sospesa nel limbo amniotico di una cavità gravida di tòpoi fertili e usurati, corrosi e corrotti. Il dramma che insegue il thriller che sodomizza l’amore che inscena il noir che si tinge di erotismo e si insozza nella soap, per concludersi amaramente nel vuoto enigmatico e cupo di un’ossessiva ricerca di risposte, di ca(r)pire l’inafferrabile senso di fine. I generi (ri)visitati nel totale - e voluto, inseguito, ricercato - disinteresse per gli stessi e per le regole che li governano sono solo tasselli di un insieme orgiastico costituito per fini indagatori e divulgativi, per aprire e fotografare squarci lerci di verità infette malcelate ma evitate (ed evirate sul nascere). Il livido incipit - una vivida successione di mortifere immagini simboliche di sale abbandonate all’inesorabile decadimento e all’oblio - è, più che faccenda inquietante, una seduta psicologica in cui si rivivono traumi (ognuno ha i propri) e si è costretti a indossare la maschera del caso; e le raffigurazioni sui titoli di coda, aventi ad oggetto una serie di elementi appartenenti all’immaginario collettivo del vivere-cinema, sembrano attestare una beffarda, funerea resa.
E, nel bel mezzo di un gelido inferno nelle lande dorate di Hollywood, personaggi grottescamente fasulli eppur “veri” nella loro fallace intensità (in)espressiva, e immersi - non a caso - nei poco dorati sottoboschi della città-giungla dei sogni, sono manovrati con gli invisibili fili dell’era digitale da mani operose e menti proiettate oltre. Oltre le barriere della banale riflessione sui mezzi sui tempi sul tutto, oltre le critiche di sistema, oltre la letteratura del contesto e l’arrampicata filologica: la storia non c’è; e quella che appare tale esiste solo sulla marcescente superficie esposta alla macchina da presa. Persino nelle sue componenti più volubili, come nella svolta da thrillerino pomeridiano (l’omicidio). Parrebbe un cedimento, una forzatura, un contentino alle convenzioni (che così trionferebbero), invece è parte del disegno concettuale, dello sguardo - non privo di una certa carica perversa - che restituisce angoscia all’angoscia dell’abisso.
Quello che ne viene fuori - The Canyons - è un ritratto feroce e audace, uno studio crudo e chirurgico, il cui senso risiede al di là del soggetto (peraltro semplicissimo da “leggere” e commentare), illuminato da luci artificiali e artificiose (la notte che imita il giorno e viceversa), e accompagnato da temi sonori sintetici morbosi.
Spiace che molti tra gli addetti ai lavori non l’abbiano compreso, schiacciati sul versante gossipparo e prigionieri di calcoli meccanici da provetti ragionieri.
I canyons, per estensione.
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