Regia di Paul Schrader vedi scheda film
I canyons. I burroni profondi, le voragini di un mondo -quello del cinema- allo sfacelo. E le voragini interiori, quei buchi neri, quei solchi incolmabili propri di esistenze che gravitano intorno ad un sogno -quello hollywoodiano- abortito. Finito bruscamente o mai cominciato. Sogno andato in frantumi, che accomuna quel folto sottobosco di stelle nascenti e subito tramontate o morte prima di nascere. Parte di umanità sconfitta, fallita, forse felice di esserlo, forse, sicuramente, infelice e tormentata. Magari per un po’, magari per sempre. Sono loro le macerie della settima arte, il materiale di scarto. Sono come la sostanziosa parte che il cinema, per sopravvivere, ha sacrificato. Ne restano le tristi vestigia, a testimonianza di un desiderio sfavillante che pareva potesse concretizzarsi, essere raggiunto, afferrato e che, invece, si è rivelato lontanissimo, impossibile, un’utopia pericolosa, pesante come il piombo, sotto cui restare schiacciati. L’ultima fatica di Paul Schrader è un’amara riflessione sul cinema - sullo stato del cinema ai giorni nostri. Non più i grandi spazi per fruire della settima arte, non più il grande schermo a invadere lo sguardo, ma mercato home video e soprattutto internet i suoi principali veicoli di diffusione. Cinema per lo più scadente, quasi ‘amatoriale’, dove chiunque può imbracciare una mdp e ‘dirigere’, dove chiunque con un po’ di grana nelle tasche può produrre un’insulsa storiella per immagini - sul labile confine tra realtà e finzione. Il cinema che buca lo schermo per immergersi nella vita vera. Siamo tutti attori, anche e soprattutto quelli mancati: tutti indistintamente indossiamo ogni giorno, fino alla fine dei giorni, una maschera e recitiamo la nostra parte, a seconda del contesto, di chi sta a guardare, di chi sono gli interlocutori. E poi la luce. La luce di Los Angeles non è più quella di un tempo, quella che naturalmente riscaldava, abbronzava e faceva risplendere il corpo perfetto di un american gigolò come pochi; adesso è fredda, artificiosa, così accecante da ferire. Si staglia sugli oggetti come lame taglienti per riflettersi impietosa su vite infelici, deformate, degradate, sfatte, rivelandone con perfezione chirurgica, l’immenso squallore di cui hanno finito per nutrirsi. I suoi fasci violenti investono e trafiggono i martiri del sogno americano in celluloide, illuminandoli, a tratti, quasi misticamente. Svelando quella smorfia interiore di dolore rimpianto e desolazione che nemmeno il trucco pesante e l’età ancora giovane possono camuffare. Luce incolore gettata su ambienti asettici, stridenti con il torbido vissuto di chi li abita. Luce bianco-ghiaccio bollente che brucia, a scolpire corpi voluttuosi di anime che si macerano nell’illusione di dominare la propria esistenza controllando e gestendo -dirigendo- ,come per una sorta di deviante ripiego, le vite altrui. Anime perse che annaspano, incapaci di affrancarsi da un destino avverso che le vuole condannate a gravitare intorno a quel piccolo mondo corrotto di scarti, dove tutti alla fine conoscono tutti: “il mondo è uno sputo”. Luci-riflettori sul disastrato palcoscenico di una vita irrisolta, che può soltanto finire in tragedia. E la colonna sonora. Suadenti synth, che rimandano ai fasti di un passato (per il cinema) oramai lontano, scandiscono i gesti ed i pensieri convulsi di queste esistenze inerti, immobili nel pantano più denso e paralizzante, dove ogni accenno di movimento si traduce nello sprofondare tutte le volte un po’ più in giù, fino ad essere inghiottiti. Regia elegante e mai invasiva; dolcemente scruta questi angeli a cui è stato negato il paradiso, ne segue le movenze, ne cristallizza le pose immortalandoli per quello che sono: fiori freschi già appassiti. Brava Lindsay Lohan, che forse recita se stessa, buona la prova del porno attore James Deen. Suggestivo.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta