Regia di John Michael McDonagh vedi scheda film
Figura tipica di un certo cinema votato all’esistenzialismo, il prete è certamente personaggio di confine, costantemente sul limite della crisi nell’epoca della speculazione attorno all’umano e al divino. Come il curato di campagna di Bernanos trasposto al cinema da Bresson, la parabola del prete di Calvario ha una dimensione scopertamente diaristica: racconta i sette giorni di agonia di un sacerdote “condannato a morte” dalla vittima di un prete pedofilo ormai defunto. Annunciata nel segreto del confessionale, la sua morte deve avvenire in ottemperanza all’idea che solo col sacrificio di un innocente si può ottenere una qualche giustizia. Con uno stoicismo talora incredibile, l’inquieto Padre James si prepara a ricevere la pena (lui sa bene chi sarà il suo carnefice, noi lo scopriamo alla fine) vacillando progressivamente fino ad una scazzottata alcolica e ad un’epifany sul perdono comunque insita nella sua vocazione. Apologo altamente cattolico che rischia assai per la sua inclinazione al racconto a tesi, Calvario è filtrato dal punto di vista dell’onnipresente protagonista dalla complessa personalità (padre spirituale e padre di una ragazza, ex alcolista che vive senza fronzoli, addentro alla comunità parrocchiale che lo rispetta senza particolari sovrastrutture) il cui destino, nitido sin dal principio, è il vero tema della storia (un eccellente Brendan Gleeson che lavora di sottrazione). Gioco al massacro con un coro di peccatori che sono anche sospettati (la ninfomane, il represso, l’ateo, l’alienato, l’arrogante…), è un glaciale film di chiacchiera, illuminato freddamente da Larry Smith con le campane che dirompono nella colonna sonora di Patrick Cassidy, ma anche un incompleto noir etico che qua e là tende ad allentare la tensione nel mare dell’insignificanze delle parole non riuscendo totalmente nell’obiettivo di essere davvero perturbante, inquietante, devastante come i cinque minuti finali riescono ad essere.
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