Regia di Béla Tarr vedi scheda film
I due protagonisti, marito e moglie, vengono ritratti nella loro quotidianità, mentre sono alle prese con un matrimonio in crisi, tra lei che sogna una famiglia unita e una vita casalinga serena, e lui che è incline all’individualismo e coltiva aspirazioni materiali. I due sono concordi quando si tratta di affrontare le attività pratiche e di routine della vita coniugale, come fare l’amore o acquistare una lavatrice. Nei momenti in cui, invece, si tratta di abbandonarsi al sentimento o prendere decisioni importanti, le loro strade si separano: ognuno sembra voler procedere per conto proprio, tra loro non c’è interazione, e le loro discussioni servono solo a contrapporre due posizioni inconciliabili, senza che il confronto possa minimamente favorire un sia pur parziale avvicinamento. Stare insieme o uno contro l’altro sono le due condizioni che, col passare dei giorni, si alternano nel loro tormentato ménage, in cui l’incomprensione di fondo si amalgama alla normalità come uno dei tanti, inevitabili accidenti che caratterizzano l’ordinaria vita della gente comune. Il fare unisce i corpi, sotto la spinta dell’abitudine e della necessità, ma il sentire e il pensare separano le anime, che vagabondano solitarie nel silenzio o nel clamore, a seconda che la sofferenza interiore venga pudicamente repressa o sfacciatamente urlata. In ogni istante è il singolo, autonomamente, a scegliere come affrontare la situazione presente, cosa dire e cosa tacere, non tanto per riguardo verso l’altro, quanto per assecondare le mutevoli esigenze della propria personale dignità. Le parole dichiarano, ma non spiegano: cambiare i toni e le formulazioni non produce un diverso effetto, come è dimostrato dalla drammatica scena dell’abbandono, che Béla Tarr ripropone, in due distinte versioni, ma con lo stesso finale, all’inizio ed alla fine del film. Le piccole differenze (che sembrano quelle derivanti dall’improvvisazione applicata, due volte, al medesimo canovaccio) segnalano quel margine entro il quale, nella realtà, gli eventi possono variare senza che ciò si ripercuota sugli sviluppi successivi: la studiata precisione filmica che, nella cinematografia classica, costruisce la sceneggiatura come una serrata concatenazione di causa ed effetto, è un artificio tecnico che non rispecchia la fondamentale inerzia della vita vera, la sua refrattarietà ai colpi di scena, la sua tendenza a sorvolare sulle sfumature, a dimenticare i dettagli, ad assorbire le dissonanze, che è ben lontana dall’acrobatica agilità di certi racconti, in cui basta un cenno o un’occhiata di troppo a modificare il corso del destino. La nostra vita si sviluppa momento per momento, senza corrispondere ad un disegno predeterminato, ed è quindi naturalmente portata verso la disarmonia e la sproporzione, che contrae e dilata irrazionalmente i tempi. L’interminabile sequenza della serata danzante, che Béla Tarr colloca al centro del film, e in cui, di fatto, non accade proprio nulla, è un esempio del modo in cui l’esistenza, talvolta, si culla pigramente nell’insulso disordine della casualità, non premendo verso alcun particolare obiettivo: al pari di noi che, nei momenti di ozio, ci lasciamo semplicemente andare, affidandoci ad un finto e superficiale divertimento (come il marito) o ad un’autentica e profonda desolazione (come la moglie). Questo, del resto, è il romanticismo del popolo, che si rallegra alla musica suonata dalla banda (vedi la scena di apertura), oppure piange fra sé mentre qualcuno intona la triste melodia de Le foglie morte atteggiando la bocca a trombetta. È, questa, una poesia svuotata di spessore lirico, però inondata del languore che sempre fa da retrogusto alla mediocrità, e rende tutti, poveri e ricchi, felici e scontenti, partecipi di quel sommo bene, esclusivo dell’uomo, che è la capacità di soffrire con grazia.
Su Cinerepublic la recensione corredata di immagini:
http://cinerepublic.film.tv.it/prefab-people-1982-di-ba-la-tarr/1222/
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