Regia di Stephen Frears vedi scheda film
Resto sempre convinta che si dovrebbe parlare - attraverso un'opera ad un pubblico, ma anche solo, modestamente, con uno o più interlocutori diretti - solo se si ha qualcosa da dire. Altrimenti, meglio il silenzio, stare ad ascoltare ed osservare. Da tempo, mi pare, Stephen Frears abbia veramente poco da aggiungere al suo racconto di regista: sia stilisticamente che sostanzialmente. Non riferendomi solo agli insuccessi americani, ma pure, in fondo, ai suoi exploits, come il noioso ed insulso "The Queen" - salvato, guarda caso, da una interpretazione femminile aderente. Ammetto di essere un po' prevenuta: da un punto di vista personale, non ho mai amato il suo tocco. Quale tocco? Mi verrebbe da esclamare. A cavallo fra documentario, buonismo e provocazione, biopic, denuncia con scarsa presa di posizione, scarsa vitalità e sottrazione di presenza registica, la sua filmografia conferma il suo essere "il regista de Le Relazioni Pericolose" (cito un vecchio post): lavoro che gli diede invero grande notorietà. Non so se così meritata vista una lettura del testo originale abbastanza discutibile e (mio pensiero) assai meno elegante e sottile rispetto al "Valmont" di Foreman. D'altronde, il confronto è ovvio. Alla fine, le sue opere più centrate restano quelle più sincere. Più piccole e chiuse in un mondo noto: le isole britanniche. "My beautiful laudrette" e "The Snapper". Dopo una discutibile trasferta americana in più atti, che diede vita all'orrido tra l'altro "Mary Reilly" (ma per bruttezza e inutilità, inarrivabile resta "Cherì"), Frears ritorna in patria. E, successivamente al già citato "The Queen", nel 2013 porta sullo schermo una storia minore, ma di sicuro impatto emotivo per un certo tipo di pubblico (quello che legge i romanzi della signora Lee, mi verrebbe da commentare acidamente!). Avvalendosi, ancora, della interpretazione di una professionista di lunga data come Judi Dench. Che dire di "Philomena"? Tanto, o forse nulla. Perchè è innanzi tutto un film inutile: nulla aggiunge alla triste Storia irlandese, fra carestie delle patate, povertà e diaspora, potere ecclesiastico, umiltà ed ignoranza, orgoglio e negazione di responsabilità. Poco racconta dei diritti negati agli esclusi: siano essi ragazze-madri o gay. Men che meno delle colpe delle gerarchie: non singole ma collettive. Poco arricchisce la nostra sfera personale: gli atei, soprattutto nelle frange più anticlericali, si indigneranno e vedranno confermate le proprie posizioni (meno comunque rispetto a "Magdelene", per citare un titolo a caso). I credenti potranno commentare che la malvagità non è appannaggio di chi ha preso gli voti e che, comunque, resta valido l'assunto: "non guardare ai nostri peccati ma alla fede della tua Chiesa". Il tutto giocato su un equilibrio falso rappresentato dall'anziana signora da una parte e dal cinico giornalista dall'altra. Sull'impatto emotivo, poi, molto ci sarebbe da ridire: insufficiente la riflessione sulla maternità: come principio di vita ma anche come, cristianamente, "dovere di viverla" in quanto tale. I fimati "finto-amatoriali" sono tanto più irritanti in quanto inseriti in un gioco di sceneggiatura e montaggio fra flashback mentali e reali, fino alla conferma tramite visione sul piccolo schermo. Il "colpo di scena" finale, rimarcato da un momento di raccoglimento davanti ad una spoglia lapide, furbescamente preparato da un precedente battibecco con un'astiosa anziana suora. Nella realtà, pare, morta prima dell' indagine giornalitica in questione. Quindi, creato ad arte per ingraziarsi lo spettatore. Con grande scorrettezza, visto che i brutti titoli di coda rimarcano l'essere questa una "storia vera": con dovizia di fotografie e notizie sui protagonisti reali. Che salvare dunque? Qualche dialogo sicuramente, dal tono gelidamente ironico tipicamente brittannico. Il gusto generale abbastanza leggero anche. Le interpretazioni? Non ne sono sicura: Judi Dench è corretta ma non centra il bersaglio appieno. Non sa sfumare, in quell'angolo buio del cuore tra tenerezza e ruvidezza, che poi, è tipicamente irlandese (e guardandola sullo schermo, ripensando al suo tono di voce controllato ed al suo accento pulito, mi è venuto da pensare che fosse così evidente! Il suo essere inglese, e non irlandese .... Chissà ....). Steve Coogan, buono nella prima parte: spaesato ed un po' snob, si perde nella seconda. Mancando di decisione nei colori: troppo trattenuto ed educato, per essere un giornalista d' "assalto" (come il personaggio richiedeva), troppo aggressivo per essere un disincantato osservatore di disgrazie umane buffe (come il personaggio richiedeva): non sapendo o volendo prendere una posizione, decide per partecipare un po' dell'una un po' dell'altra. Pasticciando e quindi sbagliando. Alexandre Desplat insufficiente: la colonna sonora pare ci sia, ma nessuno se ne accorge. Su tutto, una regia che lascia perplessi: poco ispirata tecnicamente, "banale" in una impostazione da "vecchia televisione"; non partecipativa agli eventi o vicina ai protagonisti, quasi fosse un documentario; ma senza di quest'ultimo il rigore esplicativo: il "ritrovamento" del figlio pare veloce e semplice, il "senso" temporale smarrito fra poche ellissi e molte accelerazioni (sembra che tutto si svolga in pochi giorni). Frears insomma, poco presente eppure fin troppo visibile. Resto stupita della generale approvazione critica di quest'opera: dai miei vicini di poltrona in sala (bellissimo!) ai siti a tema sul web. Probabilmente non sono stata in grado io di cogliere la qualità. Chiudo con una citazione del casualmente-sentitamente-irlandese Oscar Wilde, come sempre sagace e sincero (lui, talmente falso da non poter che essere sincero!): "La Chiesa Cattolica è per i santi e per i peccatori, per le persone rispettabili è sufficiente la Chiesa Anglicana".
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