Regia di Stephen Frears vedi scheda film
Storie di vita vissuta. Ridiamo finalmente margine alle storie strappalacrime, perché dietro si celano veri rimpianti, grandi disperazioni. Philomena è un bivio percorso su entrambe le strade, in cui da un lato il personaggio interpretato ironicamente da Steve Coogan cerca, attraverso un ostentato ateismo, di affrontare una realtà ingiusta che gli volta le spalle e lo condanna a una misera e "intellettuale" autocommiserazione; dall'altro Philomena Lee (grandiosa, come al solito, Judi Dench) è la buona vecchietta credente, che risponde alle ingiustizie (anche peggiori di quelle di Coogan) con miracolanti perdoni e volontari prosciutti sugli occhi (e sulla coscienza). Con lei il credere riassume il significato che è andato perduto e che dovrebbe recuperare, si configura all'interno di un'anima sconfitta che vive davvero (si concede qualche peccato, di cui uno che non si perdonerà mai ma che rimane per lei un dolce ricordo) e che è combattuta; infatti con la storia che affronta Philomena è costretta più volte a partire dall'inizio di un nuovo bivio, quello fra la rassegnazione o la lotta per la propria volontà. Riscoprire il figlio andato perduto per una grave cattiveria che non cambia e rimane insidiata dopo anni, come uno scheletro nell'armadio che ammuffito continua a scricchiolare, ritrovare il figlio diventa, appunto, un collante necessario per riattaccare cocci sparsi qui e lì nella memoria e nella coscienza, strappare dall'animo il senso di colpa per la propria umanissima impotenza. Il film di Frears non ha il respiro cinico di Le relazioni pericolose (ma anche Tamara Drewe aveva le sue stoccate sarcastiche) e la professionalità di The Queen, perché si innamora troppo della storia e se ne lascia trascinare senza ritegno, benché mantenga sempre una propria dignità filmica notevole specie nel miracolo del finale, un perdono (purtroppo smentito subito dopo) che poteva allontanare Philomena dal semplice film sull'indignazione. C'è del qualunquismo semplicistico nel mettersi a parlare di Dio dove capita mentre si guida una macchina nell'America di inizio anni 2000, e c'è della ovvietà nelle immagini piangenti in primo piano di Judi Dench di fronte alla vita mai anche da lei vissuta del figlio Anthony/Michael, ma c'è originalità nella comprensione felicemente paradossale della protagonista (che "non vuole odiare nessuno" a qualsiasi costo) e c'è coraggio nel mettere in dubbio le posizioni dell'uno e dell'altro personaggio. Perché magari Philomena rimane tenera, ma sceglie Big Mama al monumento di Lincoln a Washington e ride inconsapevole dei malanni di un'altra persona, dimostrandosi lontana da un approccio intellettuale alla vita che paradossalmente l'ha fatta vivere ancora di più. Nessuno dei due personaggi protagonisti, almeno fino alla risoluzione finale, vuole finire come l'altro, nella creduloneria più ingenua o nella freddezza più razionale e infastidita. Eppure nel loro rapporto si instaura qualcosa che supera le due posizioni, un'amicizia che si appella all'umanità, e che Frears riprende abbastanza da vicino senza aver paura di far ridere o far piangere, rendendo un argomento abbastanza scottante oggetto di un film che è una commedia drammatica ma, in fin dei conti, rassicurante e consolatoria.
La professionalità con cui Frears giostra le scene è evidente (montaggio e sceneggiatura concorrono alla discreta qualità del film) e il tono rende tutto molto coinvolgente, ma si capisce già da quell'ispirato a una storia vera che il fine ultimo sia l'indignazione, la considerazione univoca di un fatto disumano, che va oltre quella unica umanità che mette d'accordo due animi così distanti. C'è poi anche da aggiungere che sicuramente Frears giostra bene il rapporto fra storie umane e contesti storico-sociali (il protagonista maschile è allontanato dal governo Blair per calunnie, il figlio di Philomena assume un ruolo politico fondamentale in America, e sono sempre ghiotte le differenze fra America e Irlanda), ma tutto è sotto una luce di politically correct che si può apprezzare solo fino a un certo punto, che riesce a non essere prevedibile (la scena finale della scoperta e del dialogo con suor Hildegarde è concitata e si blocca di fronte a un piccolo miracolo umano) nello scorrere delle indagini dei due protagonisti, ma che si configura dentro un'operazione sincera e che ha un inizio e una fine. Forse meglio ancora dell'indignazione quasi fine a se stessa di Magdalene, Philomena è un piccolo ritratto umano che può scaldare i cuori più induriti senza (troppi) ricatti e con una buona dose di humour inglese che desta spesso risate, senza lasciarsi andare alle facili accuse. Brutto il doppiaggio, sembra quasi, a momenti, di stare vedendo un documentario televisivo stile TV-verità.
Risulta poi interessante ciò che riguarda il ruolo del giornalismo, della responsabilità artistica dello raccontare storie vere, del rapporto che si instaura fra rielaborazione ed evento storico. La morale (purtroppo ben definita e con poche sfumature proprio come ogni quadratura misurata del film) è che bisogna tener conto dei sentimenti di chi viene rielaborato, raccontato, anche romanzato, senza tradire la volontà del "padrone" di quella storia e senza tradire la verità, importante sì ma mai quanto quella rilevata di Philomena, una piccola donna imperfetta nel suo miracolo.
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