Regia di Stephen Frears vedi scheda film
Chiariamolo subito: Philomena non è un capolavoro, ma un buonissimo, un ottimo film. Anzi, non è soltanto un ottimo film, è il trionfo del cinema medio inglese. In esso si individuano tutte le caratteristiche, che molto spesso coincidono con le qualità, della produzione cinematografica di sua maestà Elisabetta. La storia è, inutile a dire, una bomba ad orologeria (e questa volta la famigerata dicitura “tratto da una storia vera” ne accresce il pathos) strutturata splendidamente: da un punto di vista squisitamente narrativo, è un film equilibratissimo, capace di bagnare le risate improvvise dai lacrimoni appena versati nella sequenza immediatamente precedente, e viceversa. Commovente, a tratti devastante, Philomena merita un sacco di elogi innanzitutto per la sua abilità romanzesca superficialmente scambiabile per furbizia di bassa lega, in particolar modo nel dosaggio puntuale di colpi di scena e distensioni, nel suo progredire mansueto e scatenato verso una soluzione il più possibile armonioso con i desideri della protagonista.
Un personaggio che crea naturalmente ed ovviamente empatia e partecipazione nello spettatore, anche nel più cinico: strutturato con una soavità quasi inconsueta per due sceneggiatori uomini (Jeff Pope e Steve Coogan, anche impegnato come esimio coprotagonista), la vecchia signora irlandese Philomena che porta il titanico nome della Filumena Marturano, donna del peccato dai figli non riconosciuti, è di un’ignoranza candida e tenerissima, non capisce gli scherzi, si lascia suggestionare dai romanzetti rosa, mangia male, ringrazia tutti, crede in Dio aprioristicamente. E dire che ha subìto il peggiore dei drammi, cioè la privazione del figlioletto per volere delle suore più cattive, reticenti ed infide viste recentemente sul grande schermo (da evidenziare l’inquietante sorella Hildegard di Barbara Jefford). Una piccola donna con una vicenda troppo grande da sopportare, descritta senza retorica, senza enfasi, mai un eccesso, mai una nota fuori posto.
E il merito è soprattutto di una gigantesca Judi Dench (già Filumena in teatro) alle prese con un ruolo insolito in questo suo sfavillante viale del tramonto costellato di nobildonne e signore borghesi, la cui prova dolentissima inonda il film di tenerezza e strazio di sconfinata bellezza. La dirige Stephen Frears, il più affidabile regista inglese della sua generazione, l’esempio perfetto del regista che sa dove mettere la macchina da presa con esperienza, fermezza e solidità. Philomena è come le montagne russe dei sentimenti: si sale sorridendo, poi un colpo al cuore scendendo vertiginosamente verso il baratro dello squallore umano e poi si risale con un sorriso e si riscende ancora. È anche un film spirituale sulla grandezza del perdono, ma è un lato troppo delicato che non siamo in grado di trattare bene.
Noi ci limitiamo ad osservare che, forse, non è altro che un grandissimo melodramma: seguendo la tendenza di molto melodramma contemporanea, cioè la contaminazione con altri generi (tanto per fare due o tre esempi recentissimi: il fantascientifico Gravity non è uno straripante melodramma? Dietro i candelabri non è la sua variante trash-kitsh? Per non parlare dello scatenatissimo melodramma che si nasconde dentro Blue Jasmine), Philomena gioca a nascondino con la commedia delle/dei due anime/mondi lontanissime/lontanissimi che si incontrano e si trovano. Però poi il dolore di una madre che cerca il figlio per cinquant’anni fa tutto il resto: diluvio di lacrime in sala.
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