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When the Lights Went Out

Regia di Pat Holden vedi scheda film

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La recensione su When the Lights Went Out

di OGM
6 stelle

Bentornati anni settanta, con le casalinghe perfette e le case maledette. Con le tinte pastello opache delle prime tivù a colori, con le stoffe scozzesi, le coperte a quadrettoni e le tappezzerie a fiori. La regia riempie di tutte queste cose una villetta monofamiliare nello Yorkshire. È la costruzione con la facciata di mattoni rossi in cui si trasferisce la famiglia Maynard, composta da padre, madre e dalla figlia adolescente Sally. Corre l’anno 1974, durante il quale la zona è interessata da ripetuti ed improvvisi black out. Le condizioni ideali perché uno spirito maligno dia segno di sé, spostando gli oggetti, toccando le persone, emettendo suoni inquietanti. I fenomeni riguardano soprattutto la ragazzina, che è la prima a notarli, e per lungo tempo non viene creduta, ed addirittura accusata di essere l’autrice di una macabra messinscena. Invece questa è una storia “vera”, avente come protagonista un poltergeist anomalo, che non si accontenta di produrre effetti telecinetici, ma, di tanto in tanto, si produce in lugubri apparizioni. Gli eventi, che sono proseguiti per anni, sono noti col nome di Black Monck of Pontefract: qualcuno, come avviene nel film, li ha attribuiti alla figura di un monaco malvagio, condannato a morte e giustiziato per impiccagione. Ma, secondo le ricerche effettuate da altri, questo non sarebbe il solo possibile scenario. L’interrogativo rimane, e con esso il fascino inesauribile del paranormale, che tanto andava di moda quarant’anni or sono. I tempi sono cambiati, ed è forse arrivato il momento di riportare alla luce quel gusto dell’inspiegabile che invadeva tutti gli spazi televisivi, dai documentari di Piero Angela ai varietà della domenica pomeriggio, con il “paragnosta” Giucas Casella che si faceva passare per la controparte scientifica del mago Silvan. Davanti a questo film, quel sapore ritorna in bocca, almeno per un po’. È l’emozione di non essere soli nell’universo, insieme alla confortante sensazione di non poter sapere tutto, e di poter riservare ai sogni uno spazio esclusivo, del tutto inaccessibile alla ragione. Il regista Pat Holden  - che, a suo dire, sarebbe parente di una testimone oculare dei fatti – ci ripropone l’incubo dei fantasmi medievali rivisitati dal brivido della speculazione postmoderna, in cui l’anacronismo è l’antidoto ad un progresso che sembra tanto imperfetto, e in quanto tale ci fa tanta paura. Il catastrofismo domestico degli adulti – divisi, allora, tra la visione apocalittica dell’esaurimento del petrolio e l’onnipresente incubo della guerra nucleare – poteva facilmente tradursi in un’ossessione infantile. Ciò che succede alla piccola Sally – che, nella realtà, era un ragazzo e si chiamava Philip Pritchard – è il sintomo psicologico di un’epoca inquieta. Peccato che il film non si preoccupi di ricordarcelo, e si concentri invece troppo sugli aspetti, perlopiù puramente estetici, riguardanti il costume (le elaborate acconciature femminili, la diffusione degli elettrodomestici, le Barbie, le canzoni di John Denver). Uno sforzo dall’effetto suggestivo, ma non sufficiente a compensare una sceneggiatura priva di spunti originali, nata da una semplicistica ricomposizione degli ingredienti base del genere horror: i luoghi infestati, le possessioni demoniache, i morti viventi, gli esorcismi. E poi, sempre a proposito di déjà vu, non è un caso se, ancora una volta, è una bambina a fare da tramite tra il nostro mondo e l’aldilà. Troppo facile  parlare del passato rifacendosi al noto. E dire che l’occasione si prestava alla classica, favolosa montatura socio-drammatica: quella finzione da spettacolo popolare che, esagerando, ci aiuta a capire come eravamo.  

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